‘Ndrangheta moderna. Il nord, i silenzi e i pataccari

 

Il Fatto Quotidiano, 21.11.14
E ora mettiamoli tutti in fila. A destra le legioni di sindaci, ministri,
prefetti, imprenditori e politici di ogni rango che per decenni hanno negato la
presenza della mafia in Lombardia. A sinistra le legioni, ugualmente numerose,
di altri politici, imprenditori, professionisti, intellettuali e giornalisti
che negli ultimi tempi si sono avvicendati su palchi e cattedre e tavole
rotonde, per spiegare, da esperti doc, che oggi il “vero mafioso” non è più
quello “con la coppola e la lupara” o “che fa i giuramenti di fedeltà a vita”,
ma è un professionista raffinato che porta il doppio petto e parla fluentemente
l’inglese. Licenziamoli tutti. Perché due cose sappiamo con certezza: che la
mafia c’è e che il “vero mafioso” parla giusto il suo dialetto e fa ancora i
riti di iniziazione; anzi, ormai li fa anche in Lombardia, dove dovrebbe esprimere
la sua faccia moderna e finanziaria.
Se al nord siamo giunti a questo punto è perché ci si è abbeverati di rimozione
e di luoghi comuni evitando accuratamente di fare l’unica cosa sensata da fare
quando si ha un nemico davanti: studiarlo, conoscerlo. Molto tempo fa, negli
anni ottanta, ci fu in Brianza un bravo sindaco, si chiamava Erminio Barzaghi,
che mobilitava i  propri concittadini di
Giussano e decine di colleghi contro le organizzazioni mafiose; avviate, un
sequestro di persona dopo l’altro, un compiacente invio al confino dopo
l’altro, una bomba dopo l’altra, a “cucinarsi” una delle aree più ricche del
paese. Non era un mafiologo, Barzaghi. Ma da amministratore responsabile capì decenni
fa quel che ancora tanti amministratori del nord (leghisti compresi) si
ostinano a non capire. Che “l’avvenire nostro e dei nostri figli” (così si
espresse quel sindaco in un discorso) è in pericolo, perché il peggio del sud
si sposa ormai con il peggio del nord. Sembra incredibile che le decine di
processi celebrati dagli anni novanta a oggi, le denunce documentate prodotte
da minoranze, spesso esigue, della società civile, non siano riusciti a
cambiare nulla o quasi nella testa della classe dirigente settentrionale. La
quale, nel migliore dei casi, da qualche tempo fa dibattiti e si interroga. E
tuttavia abdica alla sua funzione: nulla facendo perché la politica, le
associazioni imprenditoriali e di categoria, gli ordini professionali, la
stessa magistratura (basti pensare alla lunghissima impunità giudiziaria
ligure), assumano posizioni coerenti nei fatti, invece di accontentarsi di
protocolli e di codici etici mai rispettati. 
Si è affermata, chissà perché, l’idea che al nord la mafia (includendo nel
termine tutte le forme possibili di organizzazione mafiosa, a partire da quella
ormai dominante, la ‘ndrangheta) al massimo ricicli i soldi, ma non “faccia”
davvero la mafia. E’ la versione aggiornata della Rimozione. Frutto della
stessa sciagurata convinzione che porta tante corti giudicanti, del tutto a digiuno
di studi e conoscenze sul fenomeno mafioso, a mandare assolti fior di clan
dall’imputazione di 416 bis. Certo, è la motivazione, chi nega che siano al
nord, e d’altronde dove dovrebbero investire i soldi? ma qui fanno affari, non
commettono il reato di associazione mafiosa. Un giorno, quando sollevai questo
problema alla Scuola Superiore della Magistratura, un sostituto procuratore mi
confidò durante un intervallo: “Io sono dovuto andare in Sicilia per vedere
condannati per associazione mafiosa determinati comportamenti. Finché ero in
Piemonte, con quegli stessi esatti comportamenti non ci riuscivo”. Perché,
appunto, “al nord fanno cose più rispettabili”.
E invece mettono bombe, incendiano, fanno estorsioni, uccidono, fanno riti di
affiliazione, intimidiscono e terrorizzano testimoni, corrompono politici e
pubblici funzionari, raccolgono voti, fanno prestito a usura, impongono servizi
e forniture, smaltiscono rifiuti tossici, dettano piani regolatori.
Quando la finiremo dunque di auto-immaginarci che cosa fa davvero la mafia nelle
contrade settentrionali? Quando riusciremo a convincerci che passo dopo passo i
clan, quelli calabresi soprattutto, si stanno impadronendo di pezzi di economia
e di società del nord, specie nel nord-ovest e nell’Emilia Romagna, con la
complicità di una zona grigia che ha le sue propaggini ovunque? Che le
situazioni di Milano, Monza-Brianza, Torino e ponente ligure sono da allarme
rosso, e che tutto quello che sembrava infiacchito, o addirittura scomparso,
continua a covare sotto la cenere, vedi i casi di Lecco e di Fino Mornasco?

 

Il comitato antimafia istituito a Milano dal sindaco Pisapia ha gettato nel suo ultimo rapporto (il quinto, lo si trova sul sito del Comune di Milano) un allarme che avrebbe dovuto mobilitare tutti i protagonisti, pubblici e privati, della vita milanese. E invece non è successo. I suoi contenuti girano più tra gli insegnanti e tra gli studenti universitari che nei vari segmenti della classe dirigente metropolitana. Lo stesso mondo dell’informazione sembra d’altronde, per la sua maggioranza, in preda a bioritmi da letargo; si sveglia ciclicamente davanti alle inchieste della magistratura, per poi riappisolarsi con intrepida prontezza. Tutto quel che accade e parla e insegna e dovrebbe scuotere non fa notizia. Perché dieci incendi non fanno notizia. Non la fa uno solo, non la fa nemmeno “uno solo” moltiplicato per dieci. Strana situazione. I miei studenti continuano a segnalarmi magazzini e negozi e auto a fuoco dalle varie provincie lombarde, registrando (loro…) la forza quotidiana della minaccia mafiosa. Incendi in provincia di Bergamo, per dire. Bar controllati in provincia di Pavia. Perfino scuole espugnate in provincia di Milano. E i segni eclatanti, impressionanti, dell’avanzata nella sanità lombarda. Ma non se ne parla. Soprattutto nessuno sembra capace di prendere il toro per le corna, e dettare o impostare una strategia corale di reazione.
Qualcuno, ed è la versione last minute della Rimozione, si illude che sia tutta colpa dell’Expo. Poi finirà, si dice, e finiranno gli appetiti. Non è così. Se la ‘ndrangheta ha puntato sull’Expo è perché giocava in casa. C’era prima, da decenni, e ci sarà dopo. Ancora una volta la constatazione è d’obbligo. La loro forza sta nelle nostre debolezze. Sta in una società senz’anima, capace di fare la voce grossa solo con i clandestini. Una società liquida davanti a un potere granitico, tutto “sangue e suolo”. La loro forza sta in un nord che al termine di una lunga avventura culturale scopre di avere come suo massimo denominatore comune il denaro. Ossia proprio il dio che non sopporta i fossati morali e adora le convenienze, senza saperle misurare.

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