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Storia di un pastorello quasi sessantenne
Il Fatto Quotidiano, 28.12.14
Ha compiuto da poche settimane i cinquantanove. Ma ne
dimostra un’infinità di meno. Da tempo immemorabile lo rivedo una volta
all’anno, una sorta di appuntamento del cuore. Sotto Natale mi ricordo di lui e
vado a trovarlo. Abita in un interrato un po’ freddo insieme a certi suoi
inseparabili amici e lo invito a casa mia. Qui finalmente trova il caldo e la
considerazione che gli mancano durante l’anno. Ha addosso un mestiere umile,
antico e ormai desueto, nel quale non ha mai fatto carriera. Ha ancora il grado
di quando ha iniziato, succede ogni tanto.
Fa il pastorello in un presepio. Porta un morbido cappello a falde larghe e
grigie. Una specie di gilet porpora su una camicia gialla; e pantaloni grigi
fino al ginocchio. Le scarpe sono rimaste rosse a dispetto del tempo. Seduto su
un pezzo di tronco tiene una sua pecora per il muso con le mani. Lo incontrai
in una cartoleria di via Parini a Milano, erano gli anni cinquanta. La maestra
aveva chiesto a ogni alunno di prestare una statuina per fare il presepe della
classe e a me era piaciuto portare quel piccolo pastore che aveva l’aspetto di
un possibile compagno di giochi. E che ebbe la ventura di diventare la prima
statuina di mia proprietà. Da allora è stato ospitato in presepi molto diversi,
perché non è vero che il Natale sospende la storia. Il Natale sta nella storia,
e le sue statuine pure.
Così il pastorello ha visto arrivare in fogge arabeggianti il suo primo compagno
di colore, e poi, stranezze del dicembre del ’68, ha visto d’improvviso su uno
sfondo brutalmente realista i carri armati di Praga, i lanciafiamme del Vietnam
e la pubblicità invadente (e imperiale) delle multinazionali. Negli anni delle
nostre stragi ha visto la grotta deserta, e i pastori in cammino a cercare il
Bambino altrove, tra montagne scoscese e lontane, perché nel solito posto “non
è più cosa”. Ha pure trovato via via nuovi compagni, venuti ad aggiungersi a
quelli di sempre: dal Messico e dal Perù, dal Tibet e dalla Birmania, dal
Portogallo e dalla Danimarca. Figli dei viaggi miei o dei miei amici, a loro
volta succedutisi nel tempo, ogni amico incastonato dentro una buona causa. Il
maestro elementare che crede nel Vangelo degli ultimi, la prof dell’antimafia,
l’editrice indipendente, l’oste della rivolta morale.
Non gli ho mai dato un nome. Il presepio, fino all’Epifania, ne prevede solo
tre. Ma gli sono danzati intorno migliaia di nomi. Le storie italiane e del
mondo gli si sono materializzate davanti a sua insaputa. Come accadeva ai
contadini e ai pastori di un tempo. Senza che nulla sapessero di politica e di
regni, le guerre piombavano d’improvviso sulla loro aia portandoli a morire in
guerre e per cause sconosciute. Lui sta dove lo si mette, ma capisce, non può
non capire, che tra un nostro appuntamento e l’altro qualcosa cambia. Ci sarà
una ragione se una sera vede spuntare una casetta e un ponte improbabili fatti e
colorati da mani infantili. Se in certi anni vede sparire i compagni di plastica
e tornare solo quelli in legno o terracotta o cartapesta non più dalla
cartolerie milanesi ma dalle bancarelle di piazza Navona. Se da un certo anno
in poi risente acuto, lui che se ne intende, il profumo del muschio. Avverte la
lotta per conservare il senso sacro dell’infanzia che lui rappresenta e accogliere
al tempo stesso il nuovo che è giusto accogliere, ma solo quello. Ha incrociato
la sua storia innocente con tante altre più consapevoli. Persone di famiglia,
giovani e poi adulti e poi di nuovo giovani che gli si sono radunati intorno
per fare progetti di viaggi o di studio o di lotta, perché è bello usare le
feste per programmare l’impegno futuro, così che, anche nella delusione o nel
dolore, si abbia addosso sempre il sapore del riposo e della risata complice.
“Pace” dice con il suo presepio. Ma nei dintorni della grotta lo hanno sempre raggiunto notizie di sangue: lo strangolamento della rivolta ungherese, il Vietnam e le sue ipocrite tregue di un giorno, l’assassinio di Mattarella, quelli del generale Galvaligi o di Pippo Fava, la strage del treno di Natale. Senza contare la Storia-mattatoio: fino a oggi, alla Siria, ai bambini di Peshawar. Se ne sta con il muso della sua pecora tra le mani premurose; ora un po’ più verso le stelle della notte, ora un po’ più verso le piccole case illuminate, tra compagni che cambiano e si aggiungono, venendo da lontano. Non si deprime, ha il compito di alleggerire il mondo dei suoi sensi di colpa, resta in quella leggendaria simbologia che appartiene in fondo all’innocenza più che alla religione. Io sono diventato signore assai maturo, lui è ancora bimbo come allora. E’ questa la forza divina dei protagonisti del presepe. La loro età per sempre, ma -diversamente che nei quadri o nei romanzi- sempre rimescolati in nuove coreografie, mossi da nuove mani, combinati con nuovi compagni. Infilati nelle storie, appunto. E perciò capaci di restituire l’infanzia a chi li ospiti e poi li riabbracci come vecchi amici dopo un anno. Ogni volta alleggerito di qualche amicizia, ma mai della loro. Loro che ti appartengono, loro a cui appartieni.
Nando
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