Castelvolturno. La sartoria di Anna e gli imprenditori che non hanno (più) paura

 

Il Fatto Quotidiano, 15.3.15

C’era una volta Castelvolturno,
città di sole e di piacere. Novella Rimini sul litorale domizio. Turismo di
élite e di seconde case. Ecco, archeologia purissima. Perché nel frattempo ci
sono state altre e contrastanti Castelvolturno. Quella affollata di terremotati
dopo il sisma dell’Irpinia nell’80. Poi quella di abbandoni silenziosi, e abusi
edilizi impuniti e senza fine. Poi quella stracolma di immigrati irregolari,
con la strage di camorra guidata da Giuseppe Setola, che suscitò tra i neri del
paese la furia ribelle che mai alcuna strage aveva prima suscitato.

E ora un’altra Castelvolturno ancora, incistata tra le brutture di decenni, ma
che un anno dopo l’altro mette a fuoco una nuova, più amichevole fotografia.
Fatta di progetti, impegni e rivolte coraggiose. Non è la solita, edificante storia
di nuove e giovani coscienze. E’ invece materia calda che sta dentro la vita
degli adulti. Qui è nata infatti a Baia Verde, su un viale che porta al mare, una
“sartoria sociale” unica in Italia. In un posto d’eccezione: un bene confiscato
a Pupetta Maresca, leggendaria figura di donna di camorra. “Sì, era roba sua; e
qui intorno ogni tanto ci fanno capire che rispettavano più lei di noi. Lei in
effetti era potere e soldi. Noi invece siamo quelli che accolgono i neri”. Chi
parla è Anna Cecere, l’anima della
sartoria. Una giovane donna che sa di sarti e di atelier e che si è messa al
servizio di questo progetto, così vicino all’utopia da portare a battezzare il
posto “Casa di Alice”. Accogliere i neri a Castelvolturno, e integrarli in
progetti di impresa, non è cosa comoda. La strage di Setola, anno 2008, monito
per tutti i neri che intendessero trafficare senza il permesso dei clan, ha
gettato sulla popolazione immigrata il marchio dello spaccio di droga, violenza
dopo la violenza. Castelvolturno e l’Africa. Vicino alla sartoria una stele
ricorda Miriam Makeba, l’artista dei diritti neri venuta qui dopo la strage a
cantare per solidarietà, e morta proprio alla fine di quel concerto generoso.
La sartoria sociale impiega donne liberate dalla tratta. Il gusto raffinato di
Anna e i colori gioiosi dell’Africa. Vestiti, camicette, tuniche, perfino un
abito da sposa.
“Abbiamo sfilato a Bologna, Riccione, Roma; certo l’ideale
sarebbe sfondare su Milano, la settimana della moda, ma non possiamo proprio
permettercelo. Io prendo al massimo rimborsi spese. Per garantire qui la mia
presenza devo trovarmi altri lavori part time. Sa, la cooperativa ‘Altri
Orizzonti’ nasce come casa di accoglienza, aiuta quaranta famiglie bisognose,
insegna la lingua a una trentina di bambini. Chiede molto lavoro volontario.
Ormai ci sarebbe bisogno di un altro locale.” “Qui a Castelvolturno”, spiega
Alessandro Buffardi, giovane consigliere comunale, “ci sono la bellezza di 111
beni confiscati, siamo nella top ten nazionale. Ma ne sono stati assegnati
pochissimi. Tanti terreni confiscati sono dei laghetti, fra l’altro. Le imprese
casalesi tiravano su la sabbia abusivamente, e ci facevano il calcestruzzo
indebolito; così fecero anche la casa dello studente dell’Aquila, quella del
crollo e dei morti”.

Però attenzione. Non solo sarti e volontari e consiglieri comunali cambiano la
foto di questo luogo simbolico. Qui è nata nel 2010 una importante associazione
di imprenditori e commercianti che non pagano il pizzo. “E aumentiamo ogni
anno, siamo partiti in nove e ora siamo una ventina”, spiega dalla sua
“Bambusa” Luigi Ferrucci, ristoratore figlio d’arte. “Vennero due ragazzini a
dirmi che dovevo pagare. Uno, si seppe poi, era pure figlio di un bancario. Non
c’entrava l’emarginazione, è che allora si usava così. Facevano proseliti
ovunque e non si muoveva foglia che loro non volessero. Mi minacciarono anche
di tagliarmi la testa. Avvisai i carabinieri. Andò tutto bene. Arresto in
flagranza, e poi le condanne, senza nemmeno bisogno di testimoniare.

 

Per questo ora io dico a chi non denuncia: si può fare, siamo aiutati, le forze dell’ordine ora sono dalla nostra parte senza indugi.” Paura? “No. Non si ha idea di quanto possa essere importante andare ai processi in compagnia. I camorristi arrivano sempre con una marea di parenti. Arrivarci con i propri colleghi aiuta, dà forza”, aggiunge il signor Gianni, panettiere. “Una delle cose di cui mi vergogno di più in vita mia”, confessa Ferrucci, “è la solitudine in cui abbiamo lasciato Domenico Noviello, l’imprenditore ucciso nel 2008 e a cui abbiamo voluto intitolare l’associazione: gli dovevano dare una lezione perché aveva denunciato. Non c’era quasi nessuno nemmeno ai funerali. Pochissimi commercianti. Ecco, oggi questo non accade”.
Rileggiamo le parole, allora. “Oggi questo non accade”. “Una volta si faceva quello che volevano loro”. “Usavano la sabbia”. Più di cento beni confiscati. Al passato, come al passato si parla di quel folle progetto di una Rimini campana. Certo, il mare inquinato e i rifiuti, i pregiudizi etnici e i molti che ancora non denunciano. Una bella matassa, dura da sbrogliare. Ma quel tempo all’imperfetto dovrebbe parlare a tutti. Perché i luoghi comuni non nascono per caso. Poi, però, resistono per la pigrizia delle menti. E dell’informazione.

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