Casal di Principe. La sfida in nome dell’Italia e il governo Renzi

Questo articolo è stato pubblicato sul "Fatto Quotidiano" del 19 marzo. E’ un po’la sintesi del viaggio fatto a Casal di Principe con l’università itinerante. Il giorno dopo mi ha telefonato il sottosegretario Graziano Delrio (che mi ha autorizzato a darne pubblica comunicazione) per dirmi che il governo sta seguendo la vicenda di Casale e che aiuterà il sindaco Renato Natale nella sua sfida, e che anzi la cosa la seguirà lui stesso. Ne sarò contento. Leggendo capirete meglio perché.

“Mi
raccomando, glielo dica a Renzi”. Mamma Jolanda, l’anziana madre di don Peppino
Diana, il prete martire della camorra, dà la sua ambasciata davanti ai trenta studenti
venuti a Casal di Principe da Milano per il loro progetto di università
itinerante. Profumo di caffè per tutti, l’antica gentilezza contadina, il
dialetto che fluisce come un fulmine. L’attuale presidente del Consiglio venne
qui a trovarla e a rendere omaggio alla memoria del figlio non appena eletto
segretario di partito; perché questa città è simbolo di “una priorità” del
paese, e perché don Diana era anche lui uno scout. I presenti annuiscono. “Gli
ho mandato messaggi, poi, ma non mi ha più risposto. C’è bisogno di lui, glielo
dica”.
A Casal di Principe tira un’aria strana, tra la prudenza e l’euforia. Per
carità non nominate più Gomorra. Il romanzo di Saviano ha avuto il merito della
denuncia tonante. Ha acceso i riflettori del mondo su un clan che se l’è
spassata tra sangue e complicità per quasi vent’anni. Ma qui è in corso
qualcosa di profondo e che l’Italia non conosce. Si sta creando una nuova
identità di popolo. Ciò che è stato resistenza alla camorra ora vuole diventare
altro: il nuovo marchio del territorio, una nuova forma di società. “Queste
sono le terre di don Peppe Diana”. Non è retorica. Chi sa riconoscere le
atmosfere e gli stati d’animo, le parole e le persone, capisce al volo di
essere finito dentro un passaggio d’epoca che va raccontato.
Magari partendo dal nuovo sindaco di Casal di Principe, Renato Natale, un
simbolo storico della lotta alla camorra, sin dagli anni ottanta. L’aula del
consiglio comunale dove riceve gli studenti ha le foto del prete-profeta, don
Peppe Diana, di cui oggi sarà ricordato l’anniversario dell’assassinio, il
ventunesimo. Un autentico spartiacque nella storia e nella memoria collettiva.
E ha anche la foto di Salvatore Nuvoletta, il ventenne carabiniere ucciso in
pieno giorno dal clan di Schiavone e Bidognetti, venduto ai suoi assassini dal
proprio maresciallo. Era il 1982. Natale non dimentica e sogna di fare durante
il nuovo mandato almeno un terzo di ciò che è necessario per portare la sua
cittadina alla normalità. Sembra poco e invece sarà uno sforzo titanico. Senza
soldi, con le strade piene di buche, un terzo delle abitazioni senza acqua, il
novanta per cento senza i contatori. L’eredità di una delle forme di potere più
brutali e rapaci che la storia nazionale ricordi. Di fronte ai quali c’erano
resistenze organizzate, embrioni di società diverse. Per questo, Natale, medico
di base anticamorrista, è stato eletto con il 65 per cento dei voti. “Ma so
benissimo che se non riuscirò a dare risposte, quel consenso mi si rovescerà
addosso”.
Sotto il municipio, nella via intitolata al “Dottor Coppola” una scritta rossa
dà il segno della difficoltà: “La nostra mentalità si chiama omertà. A morte le
spie”. Don Peppe Diana. Quel sangue di un giusto sembra davvero, come nella
leggenda, avere fecondato una civiltà intera, averle dato un’anima collettiva.
Valerio Taglione, presidente dell’associazione intitolata a don Peppe, racconta
con orgoglio le tappe della rivolta. Noi vogliamo dare a questa terra un altro
nome, per trasferirci dentro un’identità nuova anche nei fatti. Perché i fatti
ci sono. Quelli giudiziari, certamente. I capi di un tempo, quelli che
marciavano armati sui cofani delle auto in pieno giorno, se li ricorda bene il
giornalista Raffaele Sardo, sono tutti dentro. Dai carabinieri si può andare a
fare le denunce sapendo di essere aiutati.
Ma anche a scuola. Il liceo Grisé a
San Cipriano d’Aversa ha 850 studenti, tra scientifico, classico e linguistico.
I ragazzi denunciano i guasti della camorra. L’assenza di posti dove
divertirsi, dove trovarsi, città costruite famelicamente, come se i giovani non
esistessero. Hanno fatto un giornalino, chiedono di sentirsi sostenuti. Perché
nei luoghi dello spreco i soldi per l’istruzione mancano sempre. Scoppiano le
aule e così l’anno venturo perderanno anche l’aula magna. “Dove discuteremo?”,
chiede una studentessa, “finirà questa possibilità di confrontarsi?”. “Neanche
per idea”, irrompe una giovane professoressa, Emilia si chiama, ci accamperemo in corridoio e
discuteremo lì”. Nessuno vuol perdere questa spinta magica che si avverte, si
sente, perfino nell’ingannevole ritornello che già inizia a serpeggiare sul
fatto che si stesse meglio quando si stava peggio. Quando c’era il comando
ferreo della camorra, e non c’erano i furti dei rom, e non si spacciava droga
per le strade. Brutto a sentirsi, specie da un ragazzo, ma è la conferma:
“quando c’era la camorra”.


La quale in effetti c’è, guai a sottovalutarlo. Nella cooperativa “Al di là dei sogni”, ai confini con il Lazio, i ragazzi tributano una standing ovation di cinque minuti a Simmaco Perillo. Bella, trascinante, la sua narrazione. Specie quella della lotta per includere con successo nella cooperativa persone svantaggiate, anche provenienti dall’Ospedale psichiatrico giudiziario, magari definite “socialmente pericolose”. E della storia di Alberto Varone, il commerciante ucciso nel ’91 perché rifiutava di cedere le sue attività ai clan, e di cui la famiglia ha dovuto fare trasferire i resti in un cimitero sconosciuto, per fuggire le persecuzioni successive della camorra. “Questa non è terra di camorra”, urla Simmaco, “questa è la terra di Alberto Varone, glielo dobbiamo”. Anche il vescovo fa nascere a Cellole un progetto della legalità, seguito da centinaia di fedeli in una sala strapiena. Ed è festa gande la sera, di canti, di balli, con gli ospiti, e di mozzarella e di falerno come solo avviene nel clima di gioia vera. “Noi non siamo più quella cosa”. E’ il messaggio che arriva all’Italia da una lotta in pieno corso e che per la prima volta sembra poter vincere. Chi in questi anni è venuto qui per i riflettori, ci torni, respiri questa buona aria di democrazia da nessuno regalata, stringa la mano di Renato Natale, lo ringrazi e gli dia i soldi per vincere la sua sfida in nome dell’Italia. 

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