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I “messi alla prova” di Trapani. Una voglia matta di ricominciare
Il Fatto Quotidiano, 22.3.15
Chiudete
gli occhi e immaginatevi la scena: “Dottore, dottore, dottore del buco del cul,
vaffancul, vaffancul”. Sono le dieci di sera quando arriva in piazza XX
settembre a Bologna, a un passo dalla stazione della strage, il canto
fescennino per il neolaureato di turno. Ormai in Italia si festeggia così, sono
soddisfazioni. La povera pattuglia canora giunge da via Indipendenza. Al centro
una giovanotta in minigonna, a cui la corona d’alloro d’ occasione cinge la
fronte inutilmente spaziosa.
I ragazzi dell’area penale di Trapani, i cosiddetti “messi alla prova”,
osservano la scena con uno sguardo tra lo scettico e il disgustato. Si sentono
giustamente più seri. “Se avessimo potuto studiare noi”, “se non avessimo
dovuto passare il tempo in strada”, fioccano i loro primi due commenti. I
ragazzi sono una decina e sono arrivati in aereo da Trapani dribblando lo
sciopero improvviso dei controllori di volo. Sprizzano felicità per essere
stati portati qui, ventesimo compleanno di Libera, da Salvatore Inguì, il loro
capo indiano con barba e coda di cavallo, una bellissima faccia da educatore
paziente. Di fronte al canto osceno avvertono di colpo l’ingiustizia della
disuguaglianza di classe. Chi ha potuto permettersi l’università fa scempio
della sua fortuna mentre loro sono lì impegnati a recuperare la maledetta
lotteria che li ha fatti partire venti passi indietro agli altri. Partecipano a
un progetto speciale. Si chiama “Radici di memoria”: riconoscimento delle
proprie responsabilità, percorso educativo, volontariato sociale.
“Perché nessuno nasce imparato”, dice Maurizio con gli occhiali, “giusto? Ecco,
noi abbiamo sbagliato, non lo sapevamo. E ora vogliamo prendere la retta via.
Non vogliamo far più piangere nessuno”, per dire che non vogliono più campare
di furti e di rapine o di estorsioni. Giovanni ha la giacca strizzata e corta
blu, una certa eleganza. E ha una grande ambizione. “Vogliamo fare una cooperativa
per dare lavoro a quelli che hanno sbagliato come noi”. E’ un sogno, commenta
un altro, e si capisce che è un sogno davvero accarezzato.
Sono tutti in circolo, ora. Nessuno di loro ha un vero mestiere, eccetto un
aiuto cuoco. Si sono fermati tutti alla scuola dell’obbligo. Solo due hanno
fatto il primo anno delle superiori, poi fine. Prestano lavoro alla cooperativa
“Rita Atria”, Castelvetrano, e vorrebbero andare a visitare altri beni
confiscati, anche a Cascina Caccia in Piemonte, dove gli piacerebbe imparare a
produrre la birra. Vogliono imparare, mica solo a tagliare l’erba ma proprio a
condurre un’azienda agricola. Sono felici di avere preso l’aereo per la prima
volta in vita loro. Si sfottono sulla paura che qualcuno ha avuto durante il
decollo o quando l’aereo ha preso a ballare. Hanno apprezzato le hostess, e si
capisce (e lo confidano) che nel gruppo i testosteroni vanno a mille, anche se
tre di loro sono già padri. Chi ha due figli a venticinque anni (il più
anziano), chi ne ha uno a venti, chi ne uno addirittura a diciotto (“ma l’ho
fatto a quindici”, chiosa orgoglioso).
Nessuno chiede loro niente. Hanno voglia di raccontarsi. “Noi in strada ci
stavamo solo per aiutare la famiglia. Se uno vede padre e madre che per via
dell’età non trovano più un lavoro che fa? Si ruba anche per comprare la
medicina alla sorella, si ruba per sopravvivere. E le pare che se avevo un
lavoro mi mettevo a rubare. Mica siamo come a Firenze dove tutti trovano da
lavorare”. Tra loro c’è anche un compositore musicale, ha la base sul
cellulare, poi ci pensa lui a fare i miracoli. Suona chitarra batteria e anche
pianoforte, gliel’ha insegnato un educatore. Nella sera che si fa sempre più
fresca hanno un desiderio matto di narrarsi, giustificarsi, promettere. Hanno
visto anche testimoni di giustizia e persone che “hanno ucciso i familiari”,
“vabbe’, persone a cui hanno ucciso i familiari”, si correggono tra loro; ha
organizzato tutto Salvatore con le assistenti sociali. Parlano ripetutamente
del “percorso” che stanno compiendo, come i loro colleghi di Napoli o Firenze,
Palermo o Milano.
Qualcuno a tavola guarda con desiderio la ragazza di Libera che serve ai tavoli. Poi tutti ritrovano in allegria la ragione del loro viaggio, la radicale presa di distanza da una cultura che hanno vissuto come una necessità appioppata loro dal destino. Prendono i bicchieri pieni di pepsi o di bibite rigorosamente analcoliche e festeggiano a bassa voce. “Un brindisi per Libera!” fa Giovanni rivolto ad Alessio, il più piccolo, quindici anni con la frangia. Brindano tutti. Per chi ha orecchie tese al loro fianco sembra la notizia più grande di questo nuovo raduno annuale. Don Ciotti, forse, non fa troppi miracoli. Ma uno certo l’ha fatto. Vedere giovani che hanno un conto aperto con la giustizia brindare a chi lotta per la legalità, a chi li ha portati a contatto con le vittime della mafia, ha qualcosa di prodigioso. I laureati dell’alloro, del dottore e del buco eccetera eccetera sono spariti, quasi risucchiati dal loro niente. In campo restano i ragazzi dell’area penale di Trapani. Loro e il sogno di fondare una cooperativa “che dia lavoro a quelli che hanno sbagliato come noi”.
Nando
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