La favola di Cosimo. Da Eboli alla Svizzera per difendere i diritti

 

Il Fatto Quotidiano, 26.4.15

E’ partito esattamente da dove Cristo si era fermato. Da
Eboli. In direzione inversa, andando a cercare il pane in Svizzera. Bellissimo
ritrovarlo ieri, trent’anni dopo il nostro primo e unico incontro. Per festeggiare
insieme la Liberazione che di anni ne fa settanta. Le grandi navate della vita
personale e nazionale ogni tanto si incontrano. Rieccolo dunque, più elegante
di quando lo avevo lasciato, un abito scuro al binario del treno in arrivo da
Milano. Cosimo Titolo è un signore vicino ai settanta che ha passato la vita
dandosi da fare per i suoi connazionali. Per trent’anni è stato presidente
dell’organo di rappresentanza dei nostri immigrati nella circoscrizione
consolare di Berna. Una volta si chiamavano Co.co.co (Comitati di coordinamento
consolare, ma si vede che la sigla piace…), ora sono i Comites, Comitati degli
italiani all’estero.

La prima volta che lo vidi me lo immaginai iscritto al partito comunista. Non
perché mi si fosse presentato così al telefono. Ma per la somiglianza, che
allora mi apparve impressionante, e che ora si è fatta assai più lieve, con
Enrico Berlinguer, il leader comunista per definizione. Stesso fisico asciutto,
stesso intaglio del viso e dei capelli, stessa sobrietà e pacatezza
dell’eloquio. “In effetti avevo iniziato a simpatizzare per il Pci già a Eboli,
da ragazzo. Non ero iscritto, mi sono iscritto dopo, quando sono sbarcato qui.
Bisogna averla vissuta la nostra vita. Arrivai in Svizzera a diciott’anni,
quando l’ambasciata neanche ci faceva entrare. Per noi c’era solo uno
sportello, eravamo tenuti all’aperto, al freddo, stavamo in fila a centinaia
soprattutto il sabato, con la polizia svizzera che ci sorvegliava con i cani
lupo. Si poteva arrivare solo con un contratto di lavoro e comunque prima di
entrare ti facevano la visita medica a Briga, al confine. Per vedere se eri
idoneo, se no ti rispedivano a casa.” Dai ricordi di questo signore ormai
incanutito emergono immagini in bianco e nero, roba di mezzo secolo fa, colpevolmente
sbiadite nella memoria di una nazione. Erano i tempi in cui in alcuni
ristoranti affiggevano i cartelli con il divieto d’ingresso “agli italiani e ai
cani”. Mario, il signore che è con lui, è giunto prima, cinquantasette anni fa,
e ricorda quando la domenica mattina gli italiani si ritrovavano in massa
davanti alla stazione, come oggi gli immigrati dell’est sui piazzali italiani.
“Lavoravo nei cantieri”, continua Cosimo, “e presto iniziai a frequentare un
corso di formazione per operai. Tre anni. Naturalmente la sera e il sabato,
perché gli altri giorni si doveva lavorare. Alla fine trovai posto in una
fabbrica di meccanica di precisione. Ci sono rimasto fino al ’97. Nell’ ’85 ho
aperto anche un negozietto nella cittadina in cui abito, Thun. Abbigliamento
sportivo, lo gestiva mia moglie.” La moglie di Cosimo è una signora della
provincia di Catanzaro. Hanno avuto due figli, il primo, ci credereste?, si
chiama Italo, da Italia, il nome della nonna paterna. L’altro Rolando. Poi un
negozio a Berna, più tardi un altro negozio a Zurigo. A cui si dedicano ora
anche lui e un figlio. “Oggi”, comunica Cosimo con orgoglio, “abbiamo quaranta
dipendenti”.

E il partito, Cosimo? “Sono ancora iscritto. Pd, ma non so per quanto tempo”.
Gli brillano gli occhi di nostalgia per quella cosa speciale a cui si iscrisse
quando il partito in Svizzera era clandestino, “tanti compagni sono stati
espulsi dalla fabbrica”. Una militanza che ha dato però dei frutti. I diritti
degli immigrati, per esempio, i comitati il cui parere è oggi obbligatorio per
legge sulle tante attività promosse per l’immigrazione, a partire
dall’insegnamento della lingua ai figli degli italiani. “Facciamo mostre di
pittura, convegni, organizziamo le colonie marine per gli anziani, a Rimini e
in altri posti a basso prezzo, pensiamo a tutto noi, loro ci mettono un
contributo economico. Ogni tanto facciamo dibattiti, ospitiamo parlamentari. E
allora qualcuno si scandalizza e dice ‘ma così facciamo politica’. Ma perché, rispondo
io, dovremmo vendere noccioline? Dovremmo solo giocare a carte?”

 

Oggi, dopo trent’anni di impegno in prima fila (“e ogni tanto ho messo a dura prova il cuore…”), è prossimo all’abdicazione. Alle ultime elezioni per il Comites non si è ripresentato: largo ai giovani, il prossimo 6 maggio scade formalmente. Si gode questa festa della Liberazione nel salone affollatissimo del secondo piano della Casa d’Italia, l’ambasciatore, il coro, l’inno nazionale e “Bella ciao”. E un po’ di commozione tricolore. A lui vadano i giusti onori. Se il 25 aprile è sempre più la grande festa degli italiani liberi, di un popolo che si è tenuto insieme nei suoi drammi, nelle sue conquiste, nelle sue cialtronerie e soprattutto nella diaspora infinita, il merito è anche di quelli come lui. E come i suoi amici. “I miei figli? Hanno la doppia cittadinanza, italiani e svizzeri”. Cosimo invece, nonostante i cinquant’anni di Svizzera, nonostante qui sia diventato nonno e abbia fatto fortuna, di cittadinanza ne ha una sola. Lo dice come se avesse obbedito all’undicesimo comandamento: “Io e mia moglie? Noi abbiamo solo la cittadinanza italiana.”

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