Adelia, Raffaella, Valentina. Il riscatto della Calabria

Il Fatto Quotidiano, 17.5.15

Una,
due, tre. Di colpo le scopri tutte calabresi. La notte pisana è un’invasione di
studenti. I capannelli che rallentano il brulichio di gioventù croccante sono
un trionfo di jeans finestrati, bottiglie di birra e capigliature ardite. A un
lungo tavolo di ferro sono riuniti in allegria gli allievi del professor
Alberto Vannucci, ideatore e direttore del primo master sulla corruzione in
Italia. Vengono da ogni dove ma fondamentalmente (e qualcosa vorrà dire) da
Milano e dalle tre regioni del sud dette “a tradizionale insediamento mafioso”.
Sognano di andare in qualche Authority o pubblico ufficio anticorruzione,
ambiscono a mettere nella annaspante burocrazia italiana una nuova virtù
pubblica. Tra loro tre ragazze. Io sono di Conflenti, dice la più vicina; lo
so, non la può conoscere, ma insomma è in provincia di Catanzaro. Io sono di
Sersale, dice l’altra, come in un perfido gioco a saggiare le conoscenze
geografiche dell’interlocutore. D’accordo, cioè? Provincia di Catanzaro pure lei.
Io sono nata a Crotone, comunica finalmente la terza. E l’effetto è davvero
sorprendente. Nell’ordine hanno parlato Adelia Pantano, Raffaella Perri,
Valentina Barca: tre ragazze dai ventiquattro ai trentuno anni, con laurea alle
spalle, tutte calabresi e che hanno deciso di specializzarsi su un tema che il
paese ufficiale proprio non ama, tanto da non saper produrre da decenni una
decente legge anticorruzione.
E’ un caso? E’ una spia? Stanno succedendo quelle classiche cose che nessuno
vede perché non fanno notizia ma che poi quatte quatte ti cambiano un paese?
Come mai queste giovani donne non cercano altri master, e vengono proprio qui,
a rischio che nessuno voglia utilizzare quel che stanno imparando con passione?

Mai dire Calabria. Gli uomini della ‘ndrangheta si identificano nelle proprie
conversazioni con la regione di origine, sono loro i veri calabresi, ed ecco
che la Calabria presenta in una piazza crepitante di giovani il volto
sorridente di tre ragazze che gli ‘ndranghetisti, se potessero, li spedirebbero
al polo nord. “Io sono orgogliosa di essere calabrese”, spiega Valentina
deglutendo per l’emozione. “Vede, la gente calabrese che non sta con i mafiosi
si divide in due categorie: quella dei rassegnati e quella di chi vuole
cambiare. Per orgoglio io sto in questa seconda categoria”. E in effetti il
titolo della sua tesi di laurea, discussa a Roma alla Sapienza, sembra un
programma di vita. Sentite: “Cittadini attivi contro la mafia. Associazioni,
media e beni confiscati a sostegno delle lotte per la legalità”. “Me ne ero
andata via dalla Calabria con rancore, mi sembrava irredimibile. Poi ci sono
tornata per fare il tirocinio universitario sui campi estivi di Isola di Capo
Rizzuto, nel bene confiscato alla storica famiglia degli Arena. E questa
esperienza mi ha ridato la speranza”. Valentina sogna “di diventare un giorno una
brava formatrice e ricercatrice su questi temi. Mi interessano gli studi
sociali. Non so se sarà possibile, ma mi piacerebbe tornare a lavorare nella
mia terra, vorrei prendermene cura. In fondo credo di avere un debito da
saldare, quello di essermene andata”.
Adelia è molto più timida di Valentina. Esce con qualche rossore dal suo guscio,
in un film le farebbero fare la ragazza che rifiuta l’invito al ballo per pudore.
Ma la determinazione è esattamente la stessa. Figlia di un operaio, studi in
Calabria e a Milano, tesi sulla ‘ndrangheta nel territorio di Lamezia Terme. Si
informa su “Trame”, il festival lametino sui libri di mafia. Ci andrà anche
quest’anno, le piace quel clima di pacifica rivolta civile per le strade e le
piazze cittadine. Ma soprattutto ha uno scopo apparentemente in conflitto con
la sua timidezza: “ritornare in Calabria e impegnarmi attivamente
nell’antimafia”. “Dove? Vorrei fare la giornalista, per raccontare, per
denunciare. Lo so che è difficile, ma intanto farò il mio tirocinio in un
giornale”. I compagni e le compagne che si sono aggiunti invocando un amaro di
quelli buoni (“calabrese, calabrese, prof, ma non prenda la grappa al
bergamotto!”) ascoltano con attenzione. Chissà quante volte se le sono già
dette tra loro queste cose, tra una lezione e una birra; eppure c’è un silenzio
rispettoso davanti a questi propositi grandi, enunciati con candore da fiaba.

Delle tre, Raffaella ha forse la biografia più movimentata. Laurea a Pisa in giurisprudenza, tesi sull’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, trasferimento a Bologna per fare pratica forense, abilitazione al patrocinio, e poi la scelta di abbandonare lo studio legale e darsi allo studio accademico. Anche lei con la stessa passione: corruzione e mafia. “Il mio sogno? Diventare un magistrato abile e cosciente (dice proprio così; ndr) nella lotta alla criminalità organizzata. Il mio ideale? Giovanni Falcone, perché non si è mai arreso, perché non ha mai avuto paura”. Ecco. Dopo la formatrice e la giornalista, in questa rassegna di generosi propositi ci mancava la magistrata. Le tre ragazze sembrano ora e sempre più una microsocietà in movimento: la scuola, l’informazione, la giustizia. Che la dea Calabria prenda a cuore i loro destini.

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