Stefano e Denise. Un amore speciale a scuola

 

Il Fatto Quotidiano, 31.5.15

Che cosa meravigliosa è l’amore tra compagni di scuola.
Nessun amore è uguale a un altro. Ho provato la bellezza di indovinarne uno
l’altro ieri in una scuola della periferia nord-ovest milanese. Un istituto
superiore in una zona difficile, complessa, da sempre il fiato della malavita,
la Comasina. Istituto “G. L. Lagrange”. Lui e lei. Che mi hanno visto, di
questo sono certo. Ma non saprei dire se abbiano captato la tenerezza non
richiesta con cui scrutavo i loro movimenti. Pareva un incantesimo. Si
muovevano insieme, quasi attaccati l’uno all’altra. Lui faceva un passo e lei
gli stava accanto con occhio premuroso, e camminava con lui, quasi gli aderiva
di fianco, così che tra loro passavano pochi centimetri. Li avresti detti
inseparabili nel vederli spuntare con leggerezza ora alla tua destra ora alla
tua sinistra. Sedici, diciassette anni tutti e due, anche se lei aveva nei suoi
confronti qualcosa di materno. Dice che le ragazze sono sempre così. Lo sentivo
spiegare già quando andavo a scuola io che le ragazze crescono prima e che a
quell’età, fra coetanei, è come se avessero tre anni in più. Materna, dunque.
Così appariva quella relazione che forse proprio lei viveva con più
consapevolezza.

Ogni tanto sparivano, mentre pranzavo nella raffinata sala mensa della scuola
con alcuni loro insegnanti. Ero andato a vedere e commentare con un centinaio
di studenti un film sulla ‘ndrangheta bellissimo: “Anime nere”. Me ne avevano
parlato come di un’apologia della cultura mafiosa, ma vi posso garantire che
non è così, che è uno dei film più belli che si possano vedere. Con un finale
terribile e imprevedibile, che farebbe pensare e scuoterebbe anche il più
tanghero tra gli spettatori. Mi aveva invitato in quella scuola un’insegnante impegnata
su questi temi da decenni. Non purtroppo, almeno l’altro ieri, con grande
seguito di colleghi e colleghe, colpa delle interrogazioni, anche se tra le
presenti avevo felicemente ritrovato una mia laureata calabrese di più di
vent’anni prima.

Ecco, proprio quell’insegnante, Lorenza, era ora accanto a me a tavola e mi
sembrava che, senza dirlo, fosse rimasta anche lei colpita da quell’amore
silenzioso; evidente ma, vi assicuro, non esibito affatto, come invece succede
spesso a quell’età. La scuola era una specie di paese, diceva giustamente il
vicepreside. Tra studenti e docenti, quasi duemila persone. Più o meno quanti
gli abitanti del paese calabrese che aveva fatto da sfondo alla trama del film.
I due ragazzi, come vi dicevo, entravano e uscivano dunque dalla sala da
pranzo, allestita nella scuola per sperimentare e dar dimostrazione delle
abilità acquisite da una parte dei suoi studenti. Quelli, cioè, iscritti al
corso di studi alberghiero, uno dei più promettenti in periodo di crisi.
Chiamati a svolgere attività di stage in alberghi e ristoranti già prima di
diplomarsi e spesso assunti dopo prove più o meno lunghe. Qualcuno puntualmente
richiamato allo scoccar dei diciotto anni per offrirgli un posto di lavoro.
Sono loro il fiore all’occhiello di questi istituti quando, sotto lo sguardo
attento di un prof che fa da direttore di sala, servono con eleganza piatti
prelibati agli ospiti. Una filiera che dalla cucina va al tavolo centrale, ma
sempre in orario di scuola perché poi “i ragazzi tornano a casa”. Quella è la
loro scuola, infatti, non stanno mica lì a servirti perché ne hai diritto.

E Stefano, questo il nome del ragazzo, era lì a far scuola per affrontare il
momento per lui più impegnativo, il rapporto con il cliente immaginario. Per
altri sarebbe più facile, ma Stefano ha una sindrome di Down. E quindi deve
annunciare che cosa offre e deve offrirlo con qualche difficoltà in più. Senza
sbagliare un movimento. Per questo la sua compagna, Denise, i ricci biondi e un
accenno professionale di rossetto, si muoveva con lui verso il tavolo. Per
insegnargli, per evitargli di sbagliare. Suggeriva con infinita dolcezza: “Di’
vino bianco” e più tardi “Di’ vino rosso”. Stefano allora si concentrava e con
postura educata emetteva un soffio, non di più: “vino bianco”, “vino rosso”.
Poi la sua mano si tendeva per versarlo dalla bottiglia, e Denise gli guidava
il braccio, lo faceva aderire al suo per essere certa che non un goccio andasse
fuori dal bicchiere, ma era Stefano a versarlo. Stava facendo la sua scuola
professionale e stava riuscendo nella prova. Grazie alla sua forza di volontà;
e grazie a Denise che lui ogni volta ricambiava con uno sguardo di gratitudine
e soddisfazione, mentre l’insegnante di sostegno osservava silenzioso da fuori
dalla porta. A tavola i commensali fingevano distrazione, ma credo di non
essere stato il solo a emozionarsi alla vista di quell’inclassificabile amore
tra coetanei.
Il pranzo finì, la scuola finì, e fuori per Stefano c’era un altro (più grande)
amore speciale. Quello della mamma, una signora sorridente, venuta a prenderlo.
“Ho avuto il privilegio di essere servito da suo figlio”, le dissi. Lei ebbe un
impercettibile moto di orgoglio. E non mentivo: chissà quando mi ricapiterà più
nella vita di essere servito da due persone insieme con tanta meravigliosa
delicatezza. Anzi, a voi è mai capitato?

 

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