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Quegli atleti speciali con l’Italia nel cuore. Come si schiaffeggia la ‘ndrangheta
Il Fatto Quotidiano, 27.6.15
Una festa così non l’avevo vista mai. Le squadre
se ne stavano tutte allineate in fila indiana davanti alle autorità per
ritirare maglie e medaglie. Pimpanti e vocianti. Ad accoglierle, ben tre
assessori della giunta Pisapia, più la presidentessa del consiglio di zona 9 e
il presidente di MilanoSport. Un evento nell’evento, visto che i politici si
muovono solo per le telecamere e qui di telecamere non ce n’era ombra, anzi, non
si vedeva nemmeno un taccuino sgualcito.
A quale redazione sarebbe interessata
d’altronde quella non-notizia? In testa a tutti, primo nella sua fila, spiccava
un emulo di Walter Zenga, il mitico portierone dell’Inter e della nazionale.
Stessa lunga frangia sugli occhi, stessa grinta sul mento, stessa maglia
gialla. Decisamente più basso, però. E vedremo perché.
L’occasione era di festa non solo sportiva. Si riapriva finalmente la palestra
del centro di via Iseo, periferia ovest di Milano, dato alle fiamme
nell’ottobre di quattro anni fa, subito dopo che la giunta Pisapia ne aveva
revocata la concessione a una società ritenuta in odore di clan. Un incendio
devastante in pieno giorno, appiccato dolosamente in cinque punti diversi. Il
primo assalto a un edificio pubblico nella storia cittadina. Ne era seguita una
manifestazione di popolo. La nuova amministrazione si era fatta un punto d’onore
di restituire al quartiere il grande centro polivalente. E di ripopolarlo di
bambini e di giovani nonostante le casse vuote. Ecco la ragione della festa,
che era dunque anche civica: ragazzi, si riapre. Tranne la piscina, tutto il
resto era stato ricostruito.
Quanto agli atleti ben ordinati in fila nella tarda mattinata, anch’essi
avevano qualcosa di speciale. Perché erano 160 disabili, sistemati sul campo di
basket come a formare un popolo rettangolare e vivacissimo, incorniciato da
studenti liceali, operatori del settore disabilità del Comune, gente delle associazioni.
Un popolo infoltito dai molti assistenti sociali e volontari a cui affida le
sue giornate e la sua voglia di normalità. La giornata (chiamata con gioco di
parole “Sportabilità”) prevedeva per loro gare sportive in ogni disciplina. In
mattinata nuoto (in una piscina vicina), calcio, basket. Poi nel pomeriggio quel
popolo speciale si sarebbe cimentato nell’hockey in carrozzina, nel golf, nelle
bocce e nell’atletica.
C’era nell’aria del giugno pulito dai temporali una gioia contagiosa. Come se tutta
la Milano sportiva dei disabili si fosse riunita per ricacciare indietro,
proprio lei con le sue fragilità, il potere della ‘ndrangheta che devasta e
spadroneggia. Erano arrivati dai centri diurni del Comune: Pini, Negri,
Ippodromo, Gonzaga, Statuto, Treves, Faravelli,
Noale, De Nicola, Narcisi, Barabino. E anche dai centri del privato sociale:
Sorriso di Bruzzano, Don Calabria, Ferraris, Pieve Emanuele e Trezzano.
Sembra un elenco di nomi. Ma sono luoghi di speranza collettiva, che lo sport
di squadra trasforma in miracolosa fonte di identità. Per questo scoppiava l’allegria
dietro le maglie blu e rosse, verdi e bianche, o dietro la maglia gialla dell’emulo
di Zenga. A ogni brevissimo discorso di assessore seguivano piccole ovazioni e
battimani, e ogni battimano ne evocava un altro.
Ed era lì che si poteva
cogliere un fatto suggestivo. Che come lo sport degli atleti “normali” modella
i corpi e li rende praticamente tutti uguali, dettando l’andamento dei muscoli,
le proporzioni, le armonie, così questi atleti presentavano invece
all’apparenza un festival baluginante e lussureggiante di diversità. Di altezze
e di larghezze, di asimmetrie e di posizioni o movimenti. Diversissimo nelle sue
diversità fisiche quant’era compatto, spontaneamente uniforme nella sua
allegria.
Bisognava vederlo quando nei minuti prima della premiazione Eleonora, la
volontaria dell’assessorato ai servizi sociali, ha azionato l’inno nazionale.
Allora sono stati presi tutti dalla frenesia, e hanno iniziato a guardarsi da
squadra a squadra con eccitazione. Eccolo, finalmente, il momento che li
avrebbe resi simili ai campioni dei mondiali e delle olimpiadi. Perciò si sono
portati la mano destra al cuore, chi poteva, e hanno iniziato a cantare a
squarciagola. Tutto l’inno, senza sbagliare una parola. Compreso il fatidico
“stringiamci a coorte siamo pronti alla morte”. La posa che spesso suona
ridicola negli esemplari del trombonismo politico, acquistava in loro un che di
grande, un senso di vittoria indipendente dalla gara e dalla disciplina
praticata. E perfino dalla consapevolezza che ciascuno di loro potesse avere
del significato di quel lontano incendio e della riapertura della palestra.
Perché davvero se bisognava inventare un modo per ristabilire con la nuova palestra
i diritti di una città, non se ne poteva trovare uno più bello.
Nando
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