19 luglio. Un anniversario tra imbarazzi e falsi storici (scritto sul “Fatto” di oggi)

 

19 luglio. Non si potrebbe immaginare un contesto più
imbarazzante per commemorare ufficialmente Paolo Borsellino ventitré anni dopo
la strage di via D’Amelio. Con questa storia comunque agghiacciante di
Crocetta, del suo amico chirurgo e di Lucia Borsellino. Con i figli del giudice
che si guardano intorno e non capiscono a chi possano serenamente stringere la
mano. E si ritraggono da pubbliche cerimonie dopo le frustate che i fatti hanno
tirato su troppe facce simboliche dell’antimafia.
L’urgenza di rompere gli apparati dell’ipocrisia non legittima però la
conclusione che, come per un riflesso pavloviano, viene gettata con sempre più
passione nel dibattito. Quell’ “aveva ragione Sciascia” con cui da trent’anni
un paese che ingoia la mafia ogni giorno vorrebbe liquidare questo fastidioso movimento
di giovani, insegnanti, familiari, amministratori locali, giornalisti,
commercianti che contro la mafia vuole lottare. Blasfemo pretendere di
difendere così la memoria del giudice dai baffetti gentili, visto che proprio
lui fu l’unico (l’unico!) bersaglio nominativo dell’invettiva dello scrittore.
Così come è un falso storico che lo stesso Borsellino avesse alla fine “capito”
o giustificato quella polemica. Chi lo dice vada a sentirsi il testo
dell’ultimo discorso pubblico del giudice, Palermo, 25 giugno 1992, biblioteca
comunale di Palermo: “Giovanni”, disse di Falcone, “ ha iniziato a morire con
quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”. Che cosa poteva dire di più,
e di più drammatico, un mese dopo la strage di Capaci e 25 giorni prima del
proprio martirio? Ecco, il 19 luglio non è data per le maschere dell’antimafia.
Ma nemmeno per gli spacciatori di storia falsa.

 

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