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I professionisti dell’anti-Antimafia (scritto sul Fatto di ieri 27 luglio)
Quasi trent’anni e ancora lì siamo. Ai professionisti
dell’antimafia. Viene perfino pudore a parlarne. Ma siccome c’è un vasto mondo che
ne discetta sferzante e c’è una
variopinta umanità che sembra inventata apposta per dargli ragione, occorre
prendere l’argomento per le corna. Sapendo di attirarsi gli strali degli uni e
degli altri. Strane creature, questi professionisti. Nacquero per decreto
mediatico-politico nel gennaio dell’87 (il 10 gennaio per la precisione) grazie
al titolo di prima pagina che sul “Corriere della Sera” annunciava un lungo articolo
interno di Leonardo Sciascia. Furono da subito una specie umana deplorevole,
messa all’indice dall’intellettuale scomodo per antonomasia, benché nell’occasione
comodissimo al Palazzo. Lodarono infatti
Sciascia tutti i giornali e le tivù, tutti i partiti, di governo e non, tutti i
sindacati. Destino raro per gli anticonformisti. Ricordiamolo dunque, per chi non
era ancora nato e per chi era adulto e si ostina a non volere ricordare: all’origine
di tutto vi era stata la nomina di Paolo Borsellino a procuratore capo di
Marsala.
Borsellino aveva vinto quel posto nella mafiosissima provincia di Trapani per
gli straordinari meriti acquisiti sul campo, tra cui l’istruzione con Giovanni
Falcone del celebre maxiprocesso di Palermo, allora in corso. E un magistrato
concorrente se ne era adontato: e dove stiamo mai finendo, che i magistrati non
vengono scelti a quei posti per anzianità o per titoli formali ma per capacità
specifica, di indagare e di rischiare? Aveva perciò rappresentato le sue doglianze
allo scrittore. Che raccogliendole e argomentandole per una pagina intera sul
“Corriere” aveva perentoriamente così concluso: “I lettori, comunque, prendano
atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del
prender parte a processi di stampo mafioso”. Cinque anni dopo Borsellino fece
carriera saltando per aria in via D’Amelio. Ed è precisamente questo che è un
po’ scomodo ricordare.
Perché in realtà Sciascia aveva dato voce a un fastidio crescente. Fino
all’alba degli anni ottanta infatti non esisteva in Italia un movimento antimafia.
Nacque sull’onda dei delitti eccellenti del ’79-‘82 coagulandosi intorno ad
alcuni magistrati e poliziotti, familiari di vittime, preti di frontiera,
singoli giornalisti, singoli politici. Conquistando un seguito del tutto
imprevedibile tra insegnanti e studenti. E suscitando, all’opposto, un
formidabile moto di insofferenza in un potere che con la mafia trescava in
affari e voti e trovava impertinente questa rivolta che non si esauriva nelle
lacrime davanti alle bare o nelle denunce giornalistiche da sfornare rituali e
“coraggiose” dopo i grandi delitti. Ma che con intransigenza faceva nomi e chiedeva giustizia, cercando pure di
costruire una nuova sensibilità civile. Tutti i giorni che Dio mandava in
terra.
Per questo il movimento divenne oggetto di un processo di delegittimazione
morale come nemmeno la mafia aveva subito. I magistrati divennero
“protagonisti”; i familiari “una nuova più nobile mafia”; gli avvocati delle
parti civili, altra novissima specie, “giureconsulti da corteo”; i sindaci
“esibizionisti” (Leoluca Orlando, pur non nominato, era stato oggetto
dell’invettiva di Sciascia). Tutti furono battezzati a tambur battente
“giustizialisti” e “intolleranti” (e in effetti intolleranti verso la mafia un
po’ lo erano…), mentre gli insegnanti che li sostenevano divennero “giacobini”
alla testa di studenti “khomeinisti”. Venne coniato un intero vocabolario per
portare tutti sul banco degli imputati. Colpevoli, insieme, di non mollare. Come
se fossero appunto dei “professionisti” dell’antimafia. Ma professionisti
bisognava essere. Perché dall’altra parte lo erano eccome. E perché, come
insegnava Giovanni Falcone, la mafia non può essere combattuta da dilettanti
allo sbaraglio. O da gente che ci pensa una volta all’anno.
La differenza vera, felicemente teorizzata da un mio giovane laureato, si
sarebbe rivelata in realtà quella tra “carrieristi” e “professionisti”. E di
carrieristi in nome dell’antimafia purtroppo ce ne sono stati. Tanti. Solo che
difficilmente li trovereste tra i professionisti. Stanno invece fra i
dilettanti. O tra i mestatori. Persone che hanno goduto dell’appoggio del
potere, pronto a legittimarli per interesse con quella nobile etichetta. Oppure
dell’appoggio dei social, perennemente pronti a creare miti ed eroi mai
sperimentati sul campo. Mi permetto in proposito di rinviare al mio “Benvenuti
al circo dell’antimafia” uscito su queste pagine nel dicembre del 2013. E’
stato un diluvio. Il tale magistrato fu “impegnato nella trincea di Palermo ai
tempi di Giovanni Falcone”. Seguono applausi, che cos’abbia fatto non si sa,
magari complottava contro Falcone. Il tale è invece un free lance minacciato
dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto un dvd o un libro
fallimentare): subito invitato nelle scuole, anche a pagamento. Un
nullasapiente gioca a spararla più grossa di tutti, delirando di trame e di complotti
(poi purtroppo ci sono quelli veri)? E’ l’unico che ha il coraggio di dire le
cose come stanno, meno male che c’è lui. E poi il commerciante che pretende di
essere in pericolo di vita e se la prende con “gli antimafiosi da tastiera” che
non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire che paga un delinquente per sparargli contro il chiosco. E non
è finita. C’è ancora il leader o la leader dell’associazione antimafia che si
ciuccia a fini personali i soldi (tanti) ricevuti a sostegno della sua nobile
attività, io rischio in prima fila, mica sono come gli antimafiosi di maniera. Senza
parlare della sindrome “da scorta”. Quella per cui chi, con raccomandazione politica
o simulazione, si procura una scorta diventa il Verbo per eccellenza. E naturalmente
ci sono le schiere di politici che amano “la legalità” e le foto con i
familiari delle vittime, adorano comparire con il faccione alle commemorazioni e
poi tramano con il nemico, che ne so io di chi incontro o mi capita a tavola?
Intorno, eccoci al punto, le schiere di giornalisti, politici e intellettuali
che davanti a questi casi truffaldini (tutti figli del dilettantismo di chi osserva e accredita) fanno a gara a sentenziare che “aveva ragione Sciascia sui
professionisti dell’antimafia”.
No, Sciascia allora non ebbe ragione. E’ sempre il “contesto”, per usare un
termine a lui caro, che distribuisce le ragioni e i torti della storia. E il
contesto era quello che un anno dopo portò il Csm a rifiutare la nomina di
Falcone a capo ufficio istruzione di Palermo, a beneficio di un collega
dilettante di mafia ma molto più anziano, perché occorreva chiudere con l’epoca
dei professionisti…
Strana cosa, insomma, l’Antimafia. Che quando è fatta per finta regala carriere
e tappeti rossi. E quando è fatta sul serio porta umiliazioni e censure. Od
onori che costano caro. Perché in fondo ci sono pure i professionisti
dell’anti-Antimafia. O non è di questo che bisognerebbe parlare?
Nando
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