Un palco per sette donne

 

Il Fatto Quotidiano, 24.10.15

Mentre la pioggia batte fuori dal carcere gli agenti
della polizia penitenziaria si applicano ai loro doveri di sorveglianza. I
cellulari nella cassette di metallo, per favore. E’ una sera a suo modo
eccezionale. Teatro in carcere. Vigevano, uno degli istituti di pena più
avanzati. Lo guida un giovane direttore, Davide Pisapia, solo omonimo. Mentre
questi progetti li segue Claudia Gaeta, che del suo lavoro è semplicemente
innamorata. Non sono tanti in platea. Questione di sicurezza, ovvio.
Funzionari, professionisti dei servizi sociali, psicologi, qualche fotografo e
un paio di giornalisti, un gruppo di giovani delle associazioni di
volontariato, qualche studioso. Soprattutto donne.

E un motivo c’è. Perché a recitare saranno solo donne. Sette. Tutte della
sezione di massima sicurezza, l’unica femminile esistente al nord. Il testo lo
hanno scritto loro stesse con l’assistenza di un bravissimo regista, Mimmo
Sorrentino. Una prova di coraggio da parte dell’istituzione. Una offerta che
non è stata fatta cadere nel vuoto. C’è grande curiosità. Una agente della
polizia penitenziaria spiega agli spettatori: entrate in doppia fila, andate
sul palco a fare corona allo spettacolo, poi vi siederete sull’orlo del palco
osservando le attrici sotto, e alla fine andrete a sedervi sulle sedie in legno
e da lì sarà come a teatro.
Così è. Le sette donne hanno alle spalle biografie diverse. Alcune di loro
hanno cognomi pesantissimi, pezzi di storia di organizzazioni mafiose. Ma qui
non li diremo. Perché è quel che cercano
di fare che importa. Lo spettacolo inizia con una di loro che recita distesa a
terra. Guarda verso l’alto e verso l’alto manda ricordi dell’infanzia. Non
della sua infanzia perché ognuna ha scritto sì la sua parte di testo, ma poi
ogni parte viene recitata da un’altra attrice, così da non rendere
riconoscibile la storia di nessuna. Progressivamente lo spettacolo prende
forma. Si resta colpiti dal tornare continuo di alcune figure, di alcuni
momenti. Onnipresente la figura del padre, ad esempio, e come potrebbe essere
diversamente in queste famiglie… Il padre che c’era, il padre che non c’era.
Irrompe il bisogno di fare i conti con questa tempesta di affetto e di potere,
di andare alle radici della propria storia. Perciò torna sempre anche
l’infanzia, l’infanzia che forse non conteneva tra le sue promesse una sera
come questa: perché costretta in carcere, perché liberamente offerta a chi si
impegna per la legalità. E nell’infanzia il Natale, il momento della magia.
“Per Natale quest’anno abbiamo fatto un albero troppo grande perché possa stare
in una stanza. Io lo so che l’albero vuole sfondare il soffitto e ritornare ad
avere come soffitto il cielo. Il cielo in questa notte di Natale è coperto
dalle nubi che attutiscono il suono delle esplosioni delle bombe di Maradona”.
Una voce dolce, delicata, giunge da una di loro a intonare durante la recita,
in sottofondo, “tu scendi dalle stelle”.

Si viene presi da un turbamento fulmineo. Le convinzioni maturate sulla base di
fatti durissimi, non di ideologie, si increspano. Che cosa ci dicono in scena
le donne della sezione di massima sicurezza? “Ma non ho avuto mai un desiderio
che fosse mio. Oggi in carcere ce l’ho. Sto facendo un’esperienza di teatro.
Non pensavo che sarei stata brava come attrice [,,,] E’ bello avere un
desiderio padre mio. Ed è da quando dentro di me è successo questo desiderio
che riesco a chiamarti padre mio. Non so questa lettera che effetto avrà su di
te. Non ti conosco. Ma desideravo, ed è la prima volta che lo desideravo,
scriverti. Le altre lettere che hai ricevute, l’ho scritte solo per educazione.
Puoi stracciarle. Sono scritte da una me senza anima, padre mio.”.
Che cosa pensare di fronte a queste parole che fluiscono a metà tra la
scimitarra e la poesia? Che cosa pensare della figlia di un boss tra i più
celebri che centellina con voce gentile le note dell’inno nazionale? Sembra un
miracolo. Si è costretti a farsi domande. In fretta, prima di decidere se
l’applauso finale sarà “per educazione” come quelle lettere al padre. O se sarà
giusto. Quando le sette donne tornano insieme sul palco, felici
dell’accoglienza, e le si vede una accanto all’altra nei loro abiti curati,
l’applauso capisce di essere giusto, non blasfemo verso le vittime dei clan che
portano quei cognomi. Se stiano scoprendo la legalità o lo spirito delle leggi,
non saprei. Certo queste donne stanno cercando di riscoprire se stesse. E con
quelle storie alle spalle non è poco, proprio non è poco.

 

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