Storia di Lucia. Di quotidiani eroismi (di mamma) e di sogni antichi e nuovi

 

Il Fatto Quotidiano, 31.10.15

Dici “pensione” e le
scappa un sorriso di confidenza. “Credevo peggio, pensavo di soffrire la
solitudine. E invece scopro che finalmente posso dedicare del tempo a me
stessa”. Lucia non avrebbe voluto lasciare ora il lavoro. Sarebbe arrivata
volentieri fino alla fine. Ancora sei anni. Ce l’hanno costretta. A furia di
sgarbi, di quelle sottili umiliazioni che suoi luoghi di lavoro pesano eccome.
La dottoressa La Rosa Lucia, impiegata presso una primaria azienda
metalmeccanica, laureata un’epoca fa in lingue e letterature straniere, ha
lasciato così la sua scrivania da qualche settimana. Risarcimento economico:
“tra una cosa e l’altra 10mila euro netti, sarebbe stato molto meglio farsi
licenziare. E una pensione decurtata del 20-30 per cento”.

Lucia racconta una storia apparentemente normale e che invece mette addosso ammirazione
e malinconia. La guardi, e se l’hai conosciuta un giorno, tanto tempo fa, senti
il peso della vita quotidiana e la sua corsa impietosa. La pensione, questo
ciclo della vita, è parola intrusa nel ricordo che hai di lei giovane
studentessa in arrivo da Siracusa, ultima di cinque figli, i capelli ricci e
gonfi e il portamento timido e orgoglioso di chi prende le misure alla
metropoli. Tra allora e questa parola si distende, come una fila di montagne
russe, la sua vita. Diversa da quella che immaginava. Poco generosa, capace di
scavare nella sua allegria, anche se “nonostante le ansie e le debolezze ho
sempre cercato di andare avanti”. Il primo compagno, un rapporto disordinato,
l’idea che lo avrebbe aiutato lei, propria di tante ragazze convinte che basti
il loro amore a cambiare la persona amata. Ne ebbe una prima figlia. L’inizio
di una vita a due, lei e la bambina, con le fatiche di essere mamma e lavorare
senza nessun altro a casa, lasciando la bimba a scuola molto prima del suono
della campanella “e come potevo fare, lei aspettava lì l’inizio della scuola ma
io dovevo andare al lavoro”. Una attività che in parte compensava la solitudine
sentimentale. Vent’anni in un’azienda giapponese. “Era di Osaka, mi piaceva
lavorarci, richiedeva cultura, ogni anno dovevamo fare lì la settimana
italiana, un tema sempre diverso: gli strumenti musicali, la pittura, Venezia.
Poi hanno chiuso la rappresentanza”.

Intanto il secondo innamoramento, stavolta matrimonio in Comune. Sembra la
felicità. Per scoprire che la figlia amatissima che si porta accanto è
considerata un impedimento per la nuova felicità, è parte di una storia
“estranea” a quella appena incominciata. Va a vivere in un paese in provincia
di Pavia, “un paese che non avevo mai sentito nominare”. Con una nuova figlia,
amata da lei come la prima, ma di fatto l’unica davvero accettata nel nuovo
nucleo familiare. Alla fine anche questa unione si rompe. E’lei a chiederlo, “non
ce la facevo più”. E il lavoro? Va in una importante ditta meccanica, con show
room alla Fiera di Milano. Sola con due ragazze da tirar su, unico stipendio,
in uffici che stanno a un’ora di auto di distanza. E senza aiuti economici. Le
due ragazze studiano, la più grande trova presto l’autonomia economica ma in
azienda è sempre peggio. “Incominciai a percepire una ostilità crescente,
c’erano sempre problemi, su quel che dovevo fare e in che luogo lo dovevo fare.
Io cercavo di dimostrare la mia fedeltà. Nonostante la situazione familiare
cercavo di non assentarmi mai, e se dovevo fare una visita medica me la facevo
mettere alle otto del mattino o a fine pomeriggio. Gli ho dato una disponibilità
assoluta. Ed ecco il risultato. Mi ci hanno costretto ad andarmene, annunciandomi
chiusure mai avvenute dei nostri uffici, e anche minacciando ritorsioni
illegali se non avessi ceduto”.

Scoppia a ridere, Lucia. Guardi il viso che ha conservato gentilezza e guizzi
di ironia. Pensi che quel che ha fatto lei lo hanno fatto in Italia chissà
quante donne, e riscopri nei soffitti della mente una frase, credo di papa
Wojtyla, sull’eroismo quotidiano delle mamme. “Ora sto riscoprendo quello che
posso fare. Un film, un’amica, una mostra. Per venire in città ci metto sempre
un po’ di tempo, ma ritrovo la vita. Sogno la serenità, rendermi utile agli
altri con il volontariato, un corso di pittura”. Ancora dai soffitti della
mente esce l’immagine di quel film bellissimo, “Pane e tulipani”. E ti chiedi
se per caso anche per Lucia, come per la protagonista del film, spunterà un
signore galante come lo strepitoso Bruno Ganz delle scene finali, che ne sconvolga
la quotidianità portandola a ballare.

 

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