La storia nuova di un vecchio amico. Il mecenate Jimmy

 

Il Fatto Quotidiano, 2.1.16

Che bello sentire un amico raccontare la sua nuova storia mentre
finisce l’anno. Ed emozionarsi per la fragranza che regala alle sue parole.
Jimmy Carocchi ha superato i cinquanta. 
Fino a pochi anni fa era l’amministratore delegato di “ItaliaOggi”. Un
giorno del 2009 mi disse che sarebbe andato a vivere a Pistoia. Aveva avuto
un’offerta, spiegò. In un’impresa che non si occupava più di giornali ma di
chimica. Pensai, senza dirglielo, che avrebbe avuto una vita grigia. Niente più
l’adrenalina dell’editoria, niente più l’ebbrezza del cosmopolitismo. E invece
fu l’inizio della favola che ora ascolto dentro una bellissima casa patrizia
del seicento nella campagna toscana, che ha dato vita alla sua ultima impresa.

“Vennero a Milano a chiedere chi potesse guidare la Febo, una delle maggiori
aziende pistoiesi. Il figlio del fondatore era nel Qatar da tempo e aveva
bisogno di qualcuno che sostituisse il padre, morto da poco. Due persone gli
fecero il mio nome. Venni qui. Trovai un gruppo che controllava una ventina di
società. Alcune in difficoltà. Presi con le banche l’impegno di non farne
fallire nessuna. Alcune aziende le chiusi, altre le vendetti. Ci lavorammo in tre.
Rimase un gruppo di aziende attive a Pistoia, Osimo, Milano, Atene e Parigi. Distribuzione
di prodotti chimici e packaging, l’impresa maggiore a Osimo, perciò sono andato
da pochi mesi a vivere ad Ancona. Quando c’è stato il grande salto? Be’, devo
tutto a Berlusconi.” Ride e spiega: “Una società francese voleva comprare la
Febo. La proprietà trattava. Ma poi ci fu quel siparietto della Merkel e di
Sarkozy che ridevano di Berlusconi in conferenza stampa. Fu il segnale: investire
in Italia era a rischio. La società francese si ritirò e io, vedendo che la Febo
era in vendita, mi proposi per comprarla. Feci un’offerta più alta per rilevare
anche le altre aziende. Investii sull’Italia. Presentai un piano e le banche mi
fecero credito. Pensa che il contratto di acquisto prevedeva anche le rate da
pagare in lire se l’Italia fosse uscita dall’euro”.


Scommessa vinta. E la bellissima casa patrizia? “Un giorno un signore che
trattava immobili mi disse che c’era questa villa Rospigliosi, della famiglia
di papa Clemente IX. Stupenda, vuota, usata solo per i matrimoni. Non la voleva
nessuno, solo stranieri sospetti. Spiegai che era un genere di affari che non
mi interessava. Venni a vederla solo perché sulla strada c’era una meravigliosa
cioccolateria. Restai incantato già dal salone. L’istinto fu di comprarla con Febo.
Nei mesi mi convinsi che era giusto. L’azienda andava bene. Noi non
distribuiamo gli utili, li reinvestiamo. E perché non salvare quel gioiello,
non restituire qualcosa al territorio che ci ha dato il suo sapere? Potevamo
fare una donazione. Ma era più bello farcene carico noi, il restauro
simboleggia il ruolo dell’impresa nella storia. Se ogni azienda si prendesse
cura di uno di questi beni…possono essere un volano per l’economia.
Manutenzione, restauri, qui tra artigiani, muratori e il personale del
ristorante, in certi giorni hanno lavorato anche trenta persone.”
Già, perché Jimmy Carocchi, laureato trent’anni fa in discipline economiche e
sociali, ha avuto l’idea di creare una società per la gestione della villa, con
chiesa nobiliare e parco annesso. E una pinacoteca ricca e speciale ricevuta in
comodato dall’amico Salvatore Grillo. Altissimo turismo, suite e ristorante di
lusso, per tenerla in vita qui a Lamporecchio, a poco da Pistoia e da Lucca. “Si
dà lavoro e lo stile non tocca comunque il rapporto con  la popolazione. Qui le coppie o le famiglie
vengono a fare passeggiate, anche i pic-nic; resterà sempre aperto ai
cittadini. Anzi, hai presente il quadro di Bruegel con gli ottantatré giochi per
bambini del ‘600? Li riprodurremo tutti qui dietro, abbiamo fatto un grande
prato dove c’erano rovi e sassi (“abusi edilizi a Villa Rospigliosi” ha
titolato un quotidiano locale). Ci giocherà anche la piccolissima Matilde che
Jimmy si tiene al collo, appena avuta da Samantha, economista aziendale,  dopo un matrimonio abbandonato a Milano. Sono
venute qui anche le figlie più grandi, Martina e Michela. Ed è bello vedere un
imprenditore felice, che non si prende meriti, “abbiamo avuto la fortuna di
stare in un settore che produce utili” e rivendica con orgoglio che “da noi non
c’è un euro in nero”. E che pensa che l’impresa abbia una funzione sociale.
Come dice la Costituzione. Ma soprattutto come gli aveva insegnato sin da
piccolo il padre, un signore abruzzese, sindacalista della Cgil.

 

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