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Questa antimafia così indigesta… La storia senza tappeti rossi di un simbolo della nuova Italia
Questo articolo è uscito sul "Fatto" del 21 gennaio. Prego gli amici blogghisti di farlo circolare. Non se ne può più di leggere e sentire fesserie di riporto….
Ma come sta il movimento antimafia? Signore e signori, scoppia di
salute. Il fatto è che chi sostiene che sia alla frutta, ormai lacerato da
polemiche e scandali, sembra venire da un altro pianeta. O non avere un’idea
della storia di questo paese. E’ da più di trent’anni, da quando è nato un
nuovo movimento antimafia dopo quello della lunga stagione contadina, che si leggono
periodicamente i necrologi: spaccato il movimento antimafia, bufera
sull’antimafia, i professionisti dell’antimafia, antimafia addio, ecc. ecc. Una
goduria. Dalla stampa palermitana su su fino a quella milanese.
Un fenomeno
incomprensibile se si fosse in un paese da secoli ostile alle organizzazioni
mafiose. Ma in Italia, come si sa, la mafia ha goduto sempre di buoni uffici.
Diversamente dal terrorismo, porta risorse: soldi e voti. Assicura carriere. E
sa punire con memoria di elefante. Quaranta sindacalisti furono uccisi nel
dopoguerra senza che fosse trovato un solo colpevole, e solo in due casi vi fu
un processo. Danilo Dolci fu processato e condannato nonostante la difesa di Pertini
e Calamandrei. Con il cardinale di Palermo che lo definì “disonore” della
Sicilia. I giornalisti de “L’Ora” di Palermo accumularono centinaia di cause
giudiziarie, quasi mai intentate da mafiosi. Lo stesso Sciascia scrisse “Il
giorno della civetta” confessando, in un’ultima pagina da quasi nessuno
ricordata, di non averla potuta scrivere con la libertà che è garantita in un
paese democratico. Corrado Stajano subì un processo storico per avere scritto
“Africo”. Quando fu ucciso Pippo Fava le prime indagini furono sui conti in
banca suoi e dei suoi redattori. E quando per la prima volta un giudice, Paolo
Borsellino, ebbe la guida di una procura siciliana per meriti sul campo anziché
per padronanza di brocardi o per anzianità scoppiò, purtroppo a firma Sciascia,
la polemica contro i professionisti dell’antimafia. Siccome il coordinamento
antimafia di Palermo, in quegli anni di sangue, rispose allo scrittore con un
duro comunicato, stampa e politica all’unisono denunciarono il “potere
totalitario” che l’aveva ispirato.
Il potere totalitario era uno studente in
legge di 23 anni. E sorvolo sulla mattanza. O sui funzionari di Stato onesti
diffamati e trasferiti. Fatto sta che la lotta alla mafia, quella vera, il
cuore del sistema non l’ha mai digerita. In certe circostanze l’ha dovuta
subire. La legge La Torre sull’associazione mafiosa e la confisca dei beni ebbe
bisogno di due clamorosi omicidi in quattro mesi per passare. La legge di
Libera sull’uso sociale dei beni confiscati passò in extremis agli inizi del
’96 in un paese ancora traumatizzato dalle stragi del ’92-’93, oggi non ripasserebbe.
Eppure, nonostante questo, il movimento antimafia è cresciuto ininterrottamente. Ogni volta dato per finito, nei fatti sempre più largo e organizzato. Gli altri ne sentenziano la fine, e lui va avanti perché la storia non si ferma. Eravamo una compagnia di giro a metà degli anni ottanta, ora non si riesce a tenere il conto delle iniziative che avvengono dalla Val d’Aosta alla Sardegna. Migliaia (migliaia…) di scuole, comprese quelle a utenza più fragile o difficile. Da alcuni anni sono entrate in campo le università, prima assenti. Mentre le cooperative sorte sui beni confiscati fanno nuova economia e resistono agli incendi, due estati fa ne vennero appiccati in tutte e quattro le regioni del sud interessate. Il caso Saguto? Spiacevole, certo, ma lo Stato non è il movimento antimafia, opera il contrasto istituzionale, l’abicì per favore. E infatti ha avuto (e ha) i suoi eroi e i suoi felloni, se no non ci sarebbe la mafia. Nessun problema allora? No, al netto delle calunnie sono accaduti episodi da vergogna. Ma questo proprio perché il movimento è più forte e legittimato, e dunque attrae opportunisti di ogni umanità. Perciò due anni fa scrissi su questo giornale un commento, “Il circo dell’antimafia”, che mi procurò molti veleni in risposta. Ma un conto sono i detriti che alla fine si lasciano lungo la strada un conto è la strada che si fa. Oggi i nostri giovani la prolungano fino a Berlino, a Parigi, ad Amburgo, a Cracovia, a Lione, ad Aahrus, dove grazie a loro si chiede di conoscere, anche nelle università, anche negli istituti italiani di cultura, la storia e la cultura dell’antimafia. L’antimafia, finalmente, come simbolo dell’Italia nel mondo. Come “popolo in movimento”. E ai livelli più alti? Laddove c’era un capo dello Stato che inveiva contro i giudici ragazzini ora c’è il fratello di una vittima di mafia, che non manca di ricordarci che contro la mafia bisogna impegnarsi insieme. Sarà dura, perché questa è una storia che non ha mai camminato sui tappeti rossi. Ma la strada percorsa dal movimento è tanta. E per fortuna che moriva tutti gli anni…
Nando
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