Il Maxiprocesso a Cosa Nostra. Una memoria, trent’anni dopo: per chi non c’era e per chi non ricorda


Articolo scritto sul Fatto Quotidiano.it del 10 febbraio

Quel mattino del 10
febbraio 1986 andai a piedi, da solo, verso l’aula del maxiprocesso. A Palermo
piovigginava. Stava giungendo finalmente il momento della verità. L’aveva
preceduto una battaglia durata anni. Nei palazzi di giustizia ma anche fuori. Uno
scontro culturale durissimo.
Per la prima volta nella storia d’Italia un
processo di mafia era diventato fatto nazionale. Vi arrivava l’onda lunga degli
omicidi eccellenti degli anni settanta e degli anni ottanta, tra cui quello del
prefetto dalla Chiesa aveva colpito il sentimento popolare per il ruolo avuto
dalla vittima nella vittoria sul terrorismo. A Milano e poi a Bologna gli
studenti delle medie superiori avevano organizzato assemblee oceaniche,
migliaia di giovani, ce ne sono foto oggi impressionanti, facendo propria la
domanda di giustizia. Da Milano una giornalista con il gusto delle sfide,
Camilla Cederna, aveva lanciato una sottoscrizione per aiutare economicamente
nel processo i familiari, quasi impossibilitati a trovare avvocati a Palermo.
Le toghe della difesa erano state monopolizzate dai 460 imputati e in ogni caso
allora non era buon affare difendere gli innocenti contro i boss di Cosa
Nostra. Vennero raccolti trecento milioni tra professionisti e imprenditori.
Parteciparono alla colletta anche le scuole, perfino i nostri operai
meridionali emigrati in Germania. Nulla si sa di quello che è stato uno dei più
grandi moti di solidarietà civile avuti nella storia di questo paese.
I due
giudici che più di tutti ricordiamo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per
ragioni di sicurezza erano dovuti andare nell’isola dell’Asinara a scrivere
l’ordinanza di rinvio a giudizio. Loro costretti a vivere come latitanti mentre
Totò Riina faceva nascere i suoi figli nel cuore di Palermo. La stessa domanda
di giustizia era stata colpevolizzata, quasi fosse una anomalia insopportabile
per la civiltà italiana (e in effetti un po’ lo era). Vennero coniati allora
termini poi entrati nel vocabolario dell’impunità: giustizialisti, giacobini,
khomeinisti (da Khomeini, l’ayatollah fondamentalista degli sciiti iraniani).
Il “Giornale di Sicilia” pubblicò una vignetta contro lo sforzo economico
compiuto dallo Stato per realizzare l’aula del maxiprocesso: vi si chiedeva a
quanti palermitani si sarebbe potuto dare un lavoro con quei soldi. Diede
fastidio anche l’attenzione mediatica. Lo stesso cardinale Pappalardo, quello
della celebre omelia su Palermo “espugnata come Sagunto” “mentre a Roma si
discute sul da farsi”, condannò la giustizia-spettacolo. Mentre il “Giornale”
di Montanelli, che sempre aveva ammonito ad andare dai giudici piuttosto che
denunciare in pubblico, davanti alla solennità del rito intimò (rivolto al
sottoscritto), “e ora gli orfani tacciano”. Senza contare le confessioni di Buscetta che avevano spazzato per sempre sia
l’idea che la mafia fosse solo una mentalità, sia la convinzione che i mafiosi
non potessero “pentirsi”.
Tutto questo si condensava quel mattino in quel punto
di Palermo. Arrivai e scoprii, superando uno sbarramento di polizia e
carabinieri, che la cultura giuridica del tempo prevedeva un ingresso riservato
per “imputati e parti civili”. Insieme, le vittime e i carnefici. Incontrai
dentro le mie sorelle Rita e Simona e mio zio Romeo. E altri familiari. Mi
guardai intorno. Una metà di quella sorta di immensa aeronave spaziale era
composta di gabbie, riempite di mafiosi ora silenti ora urlanti, ricordo Liggio
appoggiato alle sbarre come un signore. Vedendo quelle fisicità inscatolate
pensai, non so perché, che nessuna condanna mi avrebbe reso giustizia. Lo
pensai lì di colpo per la prima volta, dopo avere tanto atteso quel momento.
Nessuno mi avrebbe restituito mio padre. 

L’unica vera giustizia sarebbe stata sconfiggere la mafia, solo così avrebbe vinto lui. Anche se sapevo perfettamente quanto fosse costato avviare quel processo e portarci quegli imputati. Intuivo che i due giudici dell’Asinara avevano messo un’ipoteca sulla loro vita, mai avrei potuto però immaginare che sarebbero saltati in aria quasi insieme sei anni dopo. Vidi il presidente della corte, sapevo di dovergli essere grato perché aveva accettato quell’incarico dopo che una decina di coraggiosi colleghi si erano dichiarati malati o impossibilitati. Sembrava il meno indicato: veniva dalla giustizia civile e aveva una voce in falsetto. Si chiamava Alfonso Giordano. Sarebbe stato bravissimo. Pubblici ministeri vidi Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, che avevo conosciuto durante un interrogatorio. Giudice a latere era Pietro Grasso. Sarebbe diventato il presidente del Senato.
Cominciò così uno dei più grandi e difficili capitoli della storia d’Italia. Anche donne del popolo contiguo alla mafia si costituirono parte civile. Il nuovo movimento antimafia accompagnò quel braccio di ferro, anche procedurale, in cui ebbero un ruolo decisivo i ministri della Giustizia, prima Mino Martinazzoli poi Virginio Rognoni. A metà del suo svolgimento venne lanciata la celebre, furibonda polemica contro “i professionisti dell’antimafia”, principale imputato Paolo Borsellino. Alla fine, per la prima volta, Cosa Nostra sarebbe stata condannata all’ergastolo in Cassazione. Anche se già in appello si sarebbe avuta la ripetizione dei consueti scempi. Una sentenza scandalosa. Per fortuna tutto fu rifatto. Giovanni Falcone da Roma, dove era andato nel frattempo con il ministro Martelli alla direzione degli Affari penali, vegliò contro i colpi di mano, i cavilli, le complicità di Cassazione. Gli sia reso onore anche per questo.

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