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Paola con la passione del teatro, e il pianto dei giusti
Il Fatto Quotidiano, 20.2.2016
Alla fine il pianto. Caldo, amaro, liberatorio, di
frustrazione, di amore per il suo lavoro e per i giovani che la guardano
sorpresi, commossi a loro volta. Un pianto che non suona resa ma sa di fierezza.
Che imbellisce. E restituisce senso. Paola Ornati scrive e aiuta a scrivere
testi teatrali, guidando verso l’arte della parola le umanità più diverse,
dagli studenti universitari alle ragazze in difficoltà agli immigrati di
ultimissima generazione. Chi scrive ha avuto modo di osservarla mentre con
leggerezza e finezza guidava al successo un folto gruppo di studenti e
ricercatori nei loro progetti di portare sul palcoscenico del Piccolo Teatro di
Milano i drammi e i grandi problemi del presente e del passato. Mentre, quasi
coetanea con i suoi 32 anni, accoglieva e insegnava scrittura teatrale a
giovani sconosciuti diventandone amica, stilando pagelle esigenti ma rispettose
per ogni pezzo di copione. L’ha vista studiare con passione gli argomenti a cui
si applicava, mai una sbavatura di ignoranza, come se dovesse essere chiamata a
dare, lei, un esame sulla materia. E per questo già altre volte avrebbe voluto
scriverne. Ma dopo il pianto si deve, guai se a un certo punto della vita non
si fosse capaci di capire l’attimo dell’altro, le bellezze e le passioni che
racchiude.
Passione per il teatro, per la giustizia, per il futuro che si desidera.
Formatasi a Milano, Paola si è avvicinata a un gruppo di giovani attori di
Magenta dando vita a una compagnia comica dal nome assai bizzarro: Cariotipi.
“Sono dei pezzi di gene contenuti nella cellula di ogni persona, sono
frammenti; per dire che abbiamo dei frammenti di teatro nei nostri geni.
Recitiamo a Magenta in serate benefiche, l’incasso va sempre all’associazione
che ci chiede lo spettacolo, mi piace tantissimo.” Foto in rete la riprendono
vestita da uomo, in atteggiamenti buffi e perfino sorprendenti se confrontati il
suo impegno sociale, con testi che sono la sua sfida al presente, anche quando
parlano d’altro, di letteratura. “E’ una vocazione maturata in università, ho
fatto filologia moderna alla Cattolica seguendo l’indirizzo di scrittura per il
teatro. No, nessun precedente in famiglia, i miei hanno una ditta di macchinari
agricoli, la ‘Mainardi A.’, fondata da mio nonno, una delle primissime società
registrate ad Abbiategrasso, voltafieno che vanno molto nel settore del
parmigiano-grana. Il mio grande riferimento letterario è Calvino, ho anche
scritto sul suo rapporto con Gadda”. Più volte ha lavorato al fianco di un
regista estroso come Marco Rampoldi, allievo di Strehler. “No, non ho un
rapporto stabile con il Piccolo, sono chiamata a progetto per collaborare.
Faccio il lavoro di retrovia, che non si vede ma che chiede studio e pazienza,
e capacità di gestire relazioni anche difficili”. Il Piccolo, dunque, ma anche
“La tribù”, una associazione di Abbiategrasso. “Lì faccio facilitazione
linguistica, due progetti con gli immigrati. Ho trovato una soluzione scenica
che piace molto. Si fa una cena aperta a tutti, poi ognuno si racconta
attraverso il piatto che ha portato, la storia di una persona in un piatto,
vengono fuori narrazioni interessantissime”. Poi c’è un convento di cappuccini:
“Lì invece c’è una comunità di famiglie che dà riparo a ragazze molto giovani
in difficoltà. Con loro faccio un laboratorio teatrale vero e proprio di
domenica. E sa che cosa? Le ragazze vogliono interpretare il ruolo delle
guerriere, essere le guerriere della letteratura, come se attraverso il teatro volessero
costruirsi una dose di coraggio che le aiuti ad affrontare l’ambiente esterno”.
Se chiedete a Paola che cosa desidera dal suo lavoro, prima sospira sorridendo
poi vi risponde così: “Penso di fare il lavoro più bello del mondo. E’ difficile,
bisogna sapere accettare le sconfitte, che sono molte, bisogna anche non
appassionarsi troppo alle cose perché poi le perdi, ma le facce che vedo
dall’altra parte non me le dà nessun altro lavoro. Certo, desidero un po’ di
serenità. Ma sa che cosa desidero soprattutto? Di vedere premiato il merito,
non il nome o l’età o le amicizie. E soprattutto non vedere sprecati i talenti
giovanili, anche quelli dei ragazzi che lavorano con me, non vedere più i
giovani considerati come se fossero perfettamente sostituibili, privi di un valore
proprio. Le cose grandi nascono solo grazie a certe intelligenze e certi
saperi. Ed è quando ho la sensazione che questi valori vengano mortificati o
dispersi, che mi salgono le lacrime. Non per il mio lavoro, ma per il futuro della
nostra cultura”.
Nando
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