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Martina Lo Cascio. Dottore di ricerca (e bracciante) in lotta con i pregiudizi
“Buongiorno,
dottoressa”. Università di Palermo, dipartimento Culture e società. Fuori
piove. La giovane dottoranda si aggiusta sulla sedia, emozionata davanti alla commissione.
“Dunque lei presenta un lavoro dal titolo ‘Nuove rappresentazioni del
Mezzogiorno agricolo. Una ricerca etnografica sulla filiera olivicola in
Sicilia occidentale’. Ci spiega che metodo di ricerca ha seguito?”. La
candidata risponde. E sferza molte delle buone convenzioni incistate nel
pensiero della sinistra solidale e del volontariato. Ha alle spalle la grande
lettteratura di Steinbeck sull’America dei ranch e una citazione di Danilo
Dolci: vi si parla di tale Fifiddu, muratore e poi biciclettaio socialista con
il mito di Matteotti. Che era, ma questo lo saprò alla fine di tutto, il nonno
della candidata: Martina Lo Cascio, storia, sangue e cognome siciliani.
Quella dell’agricoltura e dei diritti dei contadini è dunque una passione
ereditata. Mi diranno i suoi professori che ci ha fatto la tesi triennale, i
contadini del Belice; e poi quella magistrale a Torino, i braccianti di
Rosarno. Ora ha voluto entrare nel mondo dell’agricoltura mazarese e se ne è
andata a Campobello di Mazara e dintorni, dove convivono i signori “napoletani”
che comandano il mercato delle olive, i piccoli produttori, la folla dei
braccianti migranti e le cooperative sorte sui beni confiscati. Ci è andata
come dovrebbe un ricercatore vero. Vivendo a lungo dentro e accanto alla
tendopoli che riunisce i migranti africani, accreditandosi gradualmente,
cercando di eliminare tutte le barriere psicologiche alla verità, facendosi
assumere lei stessa come bracciante. Per vedere e sentire. Per capire. Ammette
di avere dovuto lottare contro i suoi stessi pregiudizi. L’inferno è a volte
meno inferno. E il paradiso è meno paradiso. I mondi si confondono. Il caporale
non è sempre lo sfruttatore belluino. Può essere anche un organizzatore,
perfino un facilitatore, difeso dai suoi stessi operai. Il ghetto è a volte una
forma di auto-organizzazione sociale che produce almeno una idea di comunità,
con le sue geometrie, le sue economie domestiche, le sue forme di microcredito,
i suoi divieti (l’alcol) e i suoi impegni collettivi (la preghiera). E il
cottimo è una forma di retribuzione ambita dai lavoratori, che vengono qui per
guadagnare, lo spazio di una stagione, per tornare in Romania o nelle fabbriche
del nord Italia con quanti più soldi possibile, fidando sulla loro energia
fisica, “io non ci lascio sopra neanche un’oliva”.
Martina ha annotato tutto,
ha intervistato tutti, e poi ha tenuto un diario di bordo, giorno per giorno
con le sue impressioni, e i fatti di cui è stata testimone sconosciuta. Ha
visto il convegno dedicato all’immigrazione in cui due migranti di colore
vengono richiamati all’ingresso e poi accettati perché “ah, sono con lei”. Ha
visto un migrante offendersi perché la zelante esponente della Croce rossa gli
offre un materasso, “chissà perché pensa che non ho un materasso”. Scopre la
ritrosia dell’ambiente a parlare apertamente dei signori napoletani, tra cui
sguazza la camorra, che controllano la distribuzione a loro piacimento,
fissando prezzi che vanno bene anche alla grande distribuzione, ossessionata
dal prezzo più che dalla qualità. Racconta dei piccoli o medi produttori che ci
hanno provato ad arginare lo strapotere mafioso e si sono trovati gli ulivi
tagliati, e pensano che alle nuove generazioni (i loro figli) non resti che
andarsene. O della cooperativa antimafia dove gli operai pensano invece che col
mafioso si stava meglio. O del produttore che ammette che “quando Caselli dice
che l’ortofrutta è quasi tutta nelle mani della mafia non ha tanto torto”. Poi
naturalmente, sotto elezioni, le campagne contro i migranti invasori, utili
all’economia locale fino a metà pomeriggio, ma intollerabili alla vista quando
il tramonto si avvicina.
La ricerca è una straordinaria miniera di informazioni, di spunti. Un magma a
volte disordinato, tanta è la passione di raccontare e ancora prima di sapere.
Alla fine la commissione dà pubblica lode all’originalità del lavoro, giudicato
“ottimo”. La piccola folla di amici applaude e abbraccia. Martina festeggia, è
dottore di ricerca. Ha 29 anni. Ora la aspettano, se vorrà continuare, almeno
altri dieci anni di precariato. Volete sapere perché non avrà subito un
concorso da vincere? Perché sulla paga di uno o dieci ricercatori non ci può
guadagnare nessuno. Su un chilometro di autostrada o su un appalto di grandi
opere ci può guadagnare una banda. Forza Fifiddu…
Nando
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