Le madri dei desaparecidos. E l’indifferenza che le circonda

 

Il Fatto Quotidiano, 19.3.2016

Ma che deve accadere ancora in quel paese meraviglioso e
insanguinato chiamato Messico? Quale massacro immenso, quale carneficina perché
il mondo si svegli? Questo ho pensato, ancora una volta, svolgendo il mio
lavoro in università. Una battaglia di principio, quella di una grande istituzione
culturale che non ci sta a voltare la testa dall’altra parte. Perciò di nuovo
un invito in sala lauree ad alcuni familiari di desaparecidos. Con giornalisti
al loro fianco che sappiano raccontare. Dopo la visita di papa Francesco ci
sarà il pienone, giusto? Illusione. La sala semipiena più che semivuota, è
vero. Ma dopo averla vista straripare per dibattiti più modesti sulle vicende
nostrane. E con la memoria a quel giorno del 2011 in cui invitai i primi
esponenti del movimento dei familiari messicani e con loro i giornalisti più a
rischio, compresa Anabel Hernandez. Era a Genova, festival internazionale dei
diritti, ogni sera un pubblico vasto e vario. Lo contai: ventinove persone.
Loro venuti dall’inferno d’oltreoceano a cercare solidarietà, noi che gliela
davamo avaramente nonostante le nostre leggende, che tanto ci piacciono, sulla
Resistenza e sulla solidarietà dei popoli.

Perciò l’altra sera guardavo le due
donne, Yolanda e Maria del Rosario, tenersi per mano dopo gli applausi calorosissimi
degli studenti, che sembravano volersi scusare per quelle sedie vuote. Le
guardavo mentre rispondevano flettendo in avanti la testa e portando le braccia
incrociate alle spalle in segno di compunzione.
Le ascoltavo raccontare i particolari delle loro vite. E della lotta contro la
violenza impunita. Le ragazze scomparse che vengono colpevolizzate in pubblico
e nei dialoghi privati. Saranno state delle poco di buono, e se sono più adulte
“saranno scappate con l’amante”. E invece a volte vengono uccise anche per
divertimento o come rito di iniziazione per le bande. I giovani, gli uomini, invece,
sono scomparsi perché “saranno stati
narcotrafficanti”. Grida Yolanda che è “indescrivibile” la tragedia che sta
vivendo il suo paese.
Non le vengono le parole, come non vengono a Maria del
Rosario. “Il problema non è che ammazzano una persona che ti è cara, il
problema è che tu non puoi chiedere aiuto a nessuno, che intorno ai familiari
si fa terra bruciata. E che sono i familiari che devono cambiare vita. Devono
licenziarsi per improvvisarsi poliziotti perché la polizia non fa nulla. E poi
vivere di stenti”. Perciò le due donne si definiscono “fortunate”; perché sanno
almeno chi gli ha portato via i figli. Raccontano quanto sia bugiardo quel
dato, già mostruoso, dei 27mila desaparecidos. “La maggior parte delle famiglie
preferisce non denunciare la scomparsa, per paura”, in un paese che vede
uccidere una persona ogni quarto d’ora. Fanno sfilare agli occhi del pubblico
le foto dello sterminio. Non solo i propri figli, ma anche bimbi di pochi anni,
anche di pochi mesi, le vittime di quello che loro chiamano “il ninocidio”, è
la prima volta che sento questa parola, e mi attraversa un brivido.

A un certo punto Francesco, un giovane impegnato nei movimenti antimafia,
chiede a Yolanda quale sia il ruolo della scuola e dell’università. Il viso
della donna trascolora, si fa purpureo. Attimi di silenzio. “Questa è la cosa
più dolorosa”, quasi singhiozza. “Quante volte abbiamo chiesto agli studenti di
starci accanto, di far capire che non siamo sole, a Monterrey o a Guadalajara,
o quando abbiamo fatto la marcia della dignità delle mamme”. Tu, “estudiante,
perché non vieni? “Perché non succeda anche a te quel che è successo a noi,
perché stiamo chiedendo la pace per te”. “Ma gli “estudiantes” niente, “no
salen”, non escono di casa. In quel “no salen” c’è la disperazione di queste
donne indomite che il mondo si rifiuta di aiutare. Domani e lunedì a Messina
una ventina di loro verrà alla manifestazione nazionale della memoria e
dell’impegno di Libera.

Perché di Libera si può dir quel che si vuole. Sta di
fatto che in Messico lavora accanto a questo dolore e a questa solitudine (“le
amicizie non ci sono più, gli amici dei figli si dileguano”) e lunedì ne farà
una cosa sola con il dolore e la solitudine (niente, al confronto) che ha
segnato la nostra vita pubblica. E farà trovare loro in piazza migliaia e
migliaia di “estudiantes” capaci di commuoversi per loro, di stare insieme a
loro. Perché la solidarietà non è materia da inalberare solo se serve alle
proprie ideologie. Ma la prima delle risorse per contrastare le ingiustizie.
Tutte, anche quelle che appaiono lontane.

 

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