Rimini. Amarcord politici di un intellettuale anomalo

Rimini e i bagnini. Rimini e Fellini. Rimini e le discoteche. Ma anche Rimini e Giovagnoli, ovvero lo storico capo di gabinetto dei sindaci riminesi di fine novecento, entrato in comune a 25 anni vincendo un concorso da ragioniere, per poi essere chiamato accanto a sé dal primo cittadino Walter Ceccaroni, che ne aveva apprezzato il dinamismo e la passione nella federazione giovanile del partito comunista. Oggi Giorgio Giovagnoli ha passato i settanta. Un’eleganza sportiva, i baffi imbiancati, libri e cinema coltivati quasi con ingordigia, viene chiamato ripetutamente per strada da suoi concittadini, anche se è andato in pensione nel ’99. Allora il “Corriere di Rimini” lo salutò con enfasi imbarazzante: “ministro degli esteri di Palazzo Garambi” (il municipio), “ambasciatore di Rimini”,  “re dei gemellaggi”. E giù la lunga sfilza dei suoi incarichi. Dal cerimoniale alla cooperazione internazionale, fino al coordinamento delle visite degli studenti riminesi ai campi di concentramento. Chi scrive lo conobbe più di trent’anni fa proprio in quella veste. Si trovò davanti un signore gentile che non sapeva nulla di mafia ma che capì benissimo il problema, e quello che il suo comune poteva fare. E che si mise a disposizione ben oltre il suo incarico, senza rinunciare a parlare di Fellini, il vate artista che conosceva, o a mostrare i tesori artistici locali, di cui parlava come fossero patrimonio di famiglia. Classico romagnolo capace di divertirsi con le parole, offrì la storiella indimenticabile (e vera) di un riminese molto felliniano che nelle domeniche più calde si travestiva da prete e fingeva di cadere dal pontile in mare  mentre andava in bicicletta, imprecando il cielo davanti ai turisti allibiti.

“Vuoi sapere che cos’è successo dopo che sono andato in pensione? Be’, mi sono sempre occupato della vita pubblica, ho continuato nell’attività di partito, ho viaggiato, ho studiato. Nel partito democratico non sono mai entrato. Anzi ti racconto un pezzetto della mia storia, per dirti come sono fatto. Nel 2006 mi candidai al consiglio comunale nell’Ulivo. Costo della campagna elettorale 150 euro. Io nei Ds avevo aderito alla mozione di minoranza, quella di Mussi e Giovanni Berlinguer, che diede vita a Sinistra democratica, forse te la ricordi. Be’, ebbi più preferenze di tutti e venni eletto presidente del consiglio comunale. Però, una volta fatto il gruppo Pd, aderii a un piccolo gruppo consiliare, Sinistra democratica-partito comunista, non potevo fare altro. Quando i compagni di gruppo mi dissero d’improvviso che non avrebbero votato il bilancio io risposi che non ci stavo, che mi sembrava irresponsabile, anche un po’ pretestuoso, dissi che con le istituzioni non si scherza e che io invece l’avrei votato. Loro mi guardarono come se fossi attaccato alla poltrona. Allora sai che feci? Votai il bilancio e poi diedi le dimissioni. Per far capire a tutti con che spirito si sta nelle istituzioni. Era il marzo del 2009. Mi chiesero di ritirarle, le confermai, ebbi un applauso interminabile in aula. Mi misi a fare il consigliere semplice, sorvegliavo la regolarità delle delibere, finché mi venne offerto di fare l’assessore alla cultura. Capii perché e rifiutai”.

Giovagnoli scruta la sua immensa libreria in metallo, l’unica ricchezza che ha, lo ha pure scritto su un cartello in balcone per i ladri, se mai tornassero a fargli visita. Tira fuori la “Storia del partito comunista riminese,1921-1940” da lui scritta nell’81, prefazione di Giancarlo Pajetta, roba preziosa di archivi rarissimi. Scrive una dedica. “Tienila in ricordo”. Poi inizia la confessione che arriva al cuore. “Sai, qui la politica in cui ho creduto è cambiata. Fedeltà di pura convenienza, gli stessi che idolatravano Bersani ora idolatrano Renzi e sbeffeggiano Bersani. Soldi, appalti, indagini. Assessori onesti e capaci di denunciare il malaffare che vengono puniti non ricandidandoli. E io penso alla nostra grande storia collettiva. Sai che riflessione mi è venuto di fare l’altro giorno? Che in fondo quando ero giovane vedevamo le forze dell’ordine e i magistrati come gli strumenti dei padroni e i nostri dirigenti come quelli che difendevano i nostri ideali. Oggi siamo costretti a temere i nostri dirigenti, e a vedere le forze dell’ordine e i magistrati come quelli che ci difendono”.
L’intellettuale anomalo, laurea in sociologia a Urbino, libri anche sui campi di sterminio, manda giù amaro. Ha detto, per lui, la frase più rivoluzionaria e dolorosa possibile. Per me, invece,  il più grande segno di amicizia.

(scritto sul Fatto Quotidiano del 4.6.16; in foto: Giorgio Giovagnoli con Federico Fellini …)

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