Siciliani all’estero. Una storia che mi piace

Una camicia blu a maniche corte leggermente attillata, i jeans e la barba un po’ lunga. Sarà lui il tecnico da incontrare perché la conferenza fili liscia, microfoni e dvd senza sorprese? Errore. Perché il tecnico armeggia lontano mentre lui è il vicepreside della Leibniz-Montessori, uno dei licei più prestigiosi di Dusseldorf. Ti si siede accanto con premura, dia qui i dvd ché li proviamo, da che scena vuole che incominciamo, vediamo la chiavetta. Gli altri ospiti restano ammirati da tanta modestia. “Piacere, mi chiamo Luigi Giunta”. Nome italiano in una città piena di italiani, circondata da altre città piene di italiani. Una grande area di sviluppo industriale-minerario che nel dopoguerra attirò qui popolose colonie. Siciliani e calabresi a grappoli. E ovviamente, inutile dirlo, anche gente che della mafia coltivava in fondo una buona idea. Da Colonia a Duisburg.
Il vicepreside punta lo sguardo amico sotto le lenti a montatura nera. Sorride: “La vuol sapere la verità? Io sono cresciuto sentendo parlare di mafia. Però non contro la mafia. Ma con la favola della mafia che è buona e dà lavoro, ti aiuta e provvede ai tuoi bisogni. L’ho sentita da piccolo e da adolescente. Una abitudine mentale. I miei venivano da Barrafranca Pietraperzia, provincia di Agrigento, poi diventata terra di stiddari. Giunsero in Germania nel ’67. Mio padre faceva l’operaio a Paderborg. Io sono nato qui, perciò ho solo avuto racconti di laggiù, non avevo la possibilità di capire, troppo poco i viaggi di rientro al paese durante le estati. Ed ero già adulto quando venni coinvolto per ingenuità in uno strano gioco alle poste di Barrafranca. I mafiosi controllavano perfino le file agli sportelli, chiamando le persone in attesa con criteri loro, da quanto uno fosse lì ad aspettare non gli importava niente. A un certo punto il capo vide il mio nome sull’elenco di quelli in attesa. Mi chiamò ad alta voce, con l’aria irritata, mi chiese se ero forestiero, io gli dissi di sì, allora mi mise a fare il suo mestiere e a chiamare ad alta voce le persone, poi mi disse di sbrigare le mie commissioni e di sparire, di non farmi vedere mai più. Ecco, questa era Barrafranca”.
“Nel tempo abbiamo scoperto che qui un gran numero di persone aveva contatti con la mafia, e che li teneva nonostante fosse in Germania. Ne trovavo sempre di più. Eppure la Sicilia ce l’ho nel cuore. La faccio studiare agli studenti, e insieme faccio studiare anche la mafia, senza concederle nulla. No, il nostro non è un liceo bilingue, è un liceo totalmente tedesco, dove gli studenti possono anche studiare l’italiano. E io insegno appunto italiano. Per un po’ avevo anche pensato di potere lavorare in Italia. Ho studiato un anno a Firenze. Avevo trovato un lavoro come dirigente alla Lidl, nella grande distribuzione. Ma non era roba mia. Mi sono guardato intorno, tutto sommato in Germania avevo già la cattedra al liceo. Così sono tornato. Che cosa provo? Lei deve pensare che i miei genitori sono tutti e due analfabeti, che non sanno né leggere né scrivere. Che io insegni l’italiano e dia i voti di italiano ai figli della borghesia tedesca è una conquista”. Lo guardi e mentre pensi che questa è la mobilità sociale proprio come te la insegnano i manuali, il giovane italiano figlio di immigrati riceve il console di Colonia venuto all’appuntamento che lui si appresta a coordinare.
“I miei sogni, vuol sapere…Il mio progetto maggiore in questo momento è di dare più valore di italianità alle mie lezioni di italiano, di dare il senso della profondità della nostra cultura. Ho cinque ore la settimana in ogni classe, non è poco. Faccio parte del comitato che in questo Land elabora i titoli dei temi per la maturità, qui non vengono decisi a livello nazionale. Ecco, ci abbiamo messo l’immigrazione e ci abbiamo messo la Sicilia, così da trattare il tema della mafia. E poi ci abbiamo messo la poesia, Leopardi e Ungaretti soprattutto. Sarebbe bellissimo creare interscambio continuo tra gli studenti, portare la pedagogia Montessori anche al livello delle superiori. Oggi non lo si fa. Qui al liceo abbiamo 750 studenti, io coordino le classi superiori, pensi che rivoluzione sarebbe nei metodi. Difficile? Occorre pazienza, ma bisogna soprattutto credere in quello che si fa”.
Ecco, questo siciliano che in Sicilia non è nato ma la Sicilia l’ha nel cuore, questo intellettuale figlio di immigrati analfabeti, mi appare sempre più come un inno al mio paese. “Vuole scriverne sul Fatto?”. Ecco, avreste dovuto vederlo il suo sorriso.
(scritto sul Fatto Quotidiano dell’11.6.16)

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