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Edimburgo. Il sogno di libertà di Cinzia, ingegnera e cameriera
Perfino i nomi danno la misura dell’inquietudine. Lei ne ha tre. Vincenza all’anagrafe, Cinzia per famiglia e compagni di scuola, Vinnie a Edimburgo. Dove la incontro in un pub su una bellissima spiaggia, detta Portobello, che cartine e guide si guardano bene dal segnalare. Lì Cinzia fa la cameriera. Vede la guida del Touring: “italiani?, sono qui per servirvi”. Sì, italiani. Per questo, anche se è a Edimburgo, si presenta come Cinzia. E mentre consiglia un hamburger coperto da marmellata di cipolle all’aceto e allo zucchero di canna risponde alle domande incuriosite. E con naturalezza esce dalla sua breve storia un ritratto in controluce di un paese e di una generazione. Con un messaggio senza fronzoli: attenzione al tormentone dei cervelli in fuga.
Cinzia (all’anagrafe Vincenza Verdicchio) ha 28 anni ed è qui da due anni. Ci è venuta dopo una laurea in ingegneria biomedica presa al Politecnico di Torino, dov’era andata passando dalla triennale a Napoli. Il luogo di origine? “Vicino Napoli”. Che poi è Caserta. Più precisamente Casagiove, ecco il paese che davvero l’interlocutore potrebbe non conoscere. Tra poster di Marylin, Elvis e Audrey, divani vintage e collezioni di berretti, Cinzia racconta delle sue 7 e passa sterline l’ora. “Da noi non le darebbero. Qui sono sicure, c’è un minimo per 35 ore a settimana e viene rispettato. Certe cose che accadono da noi in Scozia sono inaccettabili, non esiste che siccome si è all’inizio non si viene pagati. Se dovessi metterla in termini economici, direi che guadagno quanto prende oggi un ingegnere neolaureato. Oppure direi che sto infinitamente meglio di mia sorella che a casa fa lo chef, prende 500 euro al mese e anche 50 ore a settimana, per essere licenziata a fine stagione. Ma vede, la questione non è solo o principalmente economica. E’ soprattutto di libertà, di mentalità. Io non mi ci vedevo in una gabbia, schiacciata subito dentro abitudini e convenzioni senza conoscere il mondo, costretta nella classica scatola dalle nove alle cinque. Mi sarebbe piaciuto anche provare un dottorato, ma non voglio pianificare tutto, mettermi alla corte di un professore. Qui ho conosciuto un sacco di giovani di ogni provenienza, qualificati, ma decisi a cambiare, che vale la pena di conoscere, di cui è bello condividere le storie. Non è facile essere lontano dalla famiglia, tanto più che ne ho una eccezionale. Ma mi va stretto un paese che si guarda la punta delle scarpe, dove ognuno pensa a se stesso, senza un’idea di bene comune. Qui l’idea di ciò che è di tutti esiste, pensi che l’altro giorno ho visto un tipo che si dispiaceva dei pezzetti di carta per terra sull’autobus e li raccoglieva. Dalle mie parti si pensa che ci sono io e basta. Gli scozzesi per questo sono splendidi, e poi ho davvero bisogno di respirare quest’aria internazionale.”
Cinzia nella sua tenuta nera si siede accanto a noi pranzare, è l’ora della pausa. Teme di avere confermato nella testa dell’interlocutore troppi e ammuffiti luoghi comuni.
“Non mi fraintenda. Il fatto che qui faccia la cameriera o la barista non significa che non abbia ambizioni o che sia un personaggio in cerca d’autore. Sul mio comodino ho libri di marketing, di fundraising. Sono un’attivista dei diritti umani e mi piace avere lo zaino sulle spalle, essermi costruita, oltre alla mia, un’altra famiglia sparsa nei cinque continenti. Vede, io non sono in cerca di fortuna all’estero perché ‘l’Italia fa schifo’. Io amo il mio paese anche se non ne condivido la mentalità, e oggi soprattutto non mi piace la sua rassegnazione alle cose ingiuste. Semplicemente ha vinto in me la voglia di vedere mondi e persone che da un ufficio non avrei mai conosciuto. Non prenda la mia storia come quella di un cervello scappato, per favore. Del cervello l’unica cosa che le posso dire è questa: è un muscolo che si allarga per effetto di quel che si vede e si pensa e degli stimoli che riceve. Poi non può più restringersi, non può tornare indietro”.
Ecco, sta qui il problema di Cinzia, dell’Italia. La retorica dice i cervelli in fuga. La verità è più grande. Questo paese sta perdendo i giovani più vivaci, più cosmopoliti, più capaci di rischiare in proprio. Non cento geni, ma migliaia e migliaia di laureati di talento. Un’intera leva di innovatori. Perché Cinzia a un certo punto non farà più la barista, andrà avanti, ma il cervello non lo vorrà restringere. Mai più la punta delle scarpe.
P.S. Questo articolo è stato scritto su un computer di fortuna. Me lo ha prestato una giovane italiana, Arianna. Anche lei laureata a pieni voti. Anche lei cameriera ad Edimburgo…
(scritto sul Fatto Quotidiano del 6 agosto 2016)
Nando
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