In nome del padre. Robi Mauri e quell’imprenditore che si uccise per onestà

Per anni se ne è stata nel suo bozzolo fragile e indurito. In famiglia, cercando di andare avanti “come se”. Come se fosse possibile rimuovere quella muraglia. Un padre costretto a uccidersi per onestà. Imprenditore d’avanguardia che da un certo punto in poi non vince un appalto neanche per sbaglio. No tangente, no appalto. Chiaro, no? Anche il fango può essere cristallino. Robi Mauri è la prima figlia di Ambrogio Mauri, l’ingegnere che negli anni novanta mise fine ai suoi giorni con un colpo di pistola, simbolicamente dentro la fabbrica condannata alla chiusura. Come rivela il nome, non nel Sud. Ma a Desio, nella florida e operosa Brianza. Una storia per troppo tempo rimasta sconosciuta, rimossa dalla fretta perbenista. Tornò a galla alcuni anni fa grazie a un bel libro della sceneggiatrice Monica Zapelli (“Un uomo onesto. Storia dell’imprenditore che morì per avere detto no alle tangenti”). Ma ancora oggi nel mondo delle imprese nessuno ne parla volentieri.

“E pensare che quando si scatenò il tornado di Tangentopoli mio padre ci sperò. Immaginò che fosse l’ora della grande pulizia, che quel marciume che teneva insieme imprenditori, politici e amministratori delle aziende pubbliche sarebbe saltato come la crosta di un vulcano. Andò anche a testimoniare. Sperò che avrebbe trionfato la regola del mercato: l’appalto va a chi fa l’offerta migliore. E lui era il migliore”. Lo dice con orgoglio timido, questa signora oggi madre matura di una laureanda, ancora commuovendosi al ricordo di un uomo che si batte come un leone, che disegna autobus e tram avveniristici, che lotta sul mercato taroccato dei mezzi di trasporto pubblici. Non per fissazione, ma perché lì ha scoperto il suo genio, che lo porta a fare crescere la fabbrica ereditata dal padre nel dopoguerra, fino a vincere commesse all’estero. Illusione. Anche dopo Di Pietro la società dei corrotti celebra i suoi fasti. “Per lui non c’era spazio. Si arrese quando vinse una gara importante a Milano e la procedura venne annullata, e si presentarono lui e un’altra ditta e incredibilmente vinse un terzo, una grande impresa che non aveva partecipato al bando. Fu allora, credo, che prese la sua decisione. Mettersi anche lui a pagar tangenti? Non sarebbe riuscito a guardarsi allo specchio. Preferì salutare il mondo, noi che lo amavamo, e i suoi operai, per i quali avrebbe voluto una fabbrica orgogliosa dei suoi successi. Gli operai…Sapesse che rispetto aveva per loro, l’entusiasmo con cui si metteva a progettare quel che insieme avrebbero dovuto realizzare. Fu così dal boom economico. Poi la peste di Milano, come il cardinal Martini chiamava la corruzione, gli cambiò il mondo intorno”.

Oggi Robi Mauri porta nelle sedi delle associazioni, nelle scuole, nelle università (“anche a ingegneria al Politecnico di Torino”), ovunque la invitino, il messaggio di suo padre, nella speranza che vinca alla distanza. “E’ un passaparola, mi invita sempre qualcuno che mi ha sentito in un’altra occasione, anche se non sempre le scuole preparano gli incontri con la serietà  giusta. Ma vede, io non ho molte occasioni e allora non le sciupo”. Siede, minuta e sorridente, dietro tavoli che devono crearle imbarazzo, sempre con il timore di dire una parola sconveniente, in fondo fa parte di quella borghesia che spiegava ai figli che “non rompermi le scatole” non si dice, figurarsi se le scappa un “mascalzone” all’indirizzo di qualcuno che lo meriterebbe cento volte. Quando usa i toni forti subito si ricompone, talvolta le si rompe la voce al ricordo di quel colpo sparato a bruciapelo al cuore. “Che cosa devo fare? Io spero che a furia di ricordare, di insegnare ai ragazzi i principi di una giusta etica pubblica, questo mondo cambi. Posso essere spudorata? Io vorrei che il papà fosse sempre più conosciuto. E’ lo scopo della mia vita, ma qualcosa servirà un po’ anche agli altri. Vede, qui a Desio fa gli hanno dedicato un bel parco pubblico, tutto realizzato da volontari. Pensi che all’atto dell’inaugurazione un signore con la fisarmonica ha suonato spontaneamente l’inno nazionale e tutti l’hanno seguito. Una cosa forse naif, ma bella. Vorrà dire qualcosa, no?”.

La domanda le si stringe in gola. E senti il rovello di questa donna qualunque trasformata dal destino in testimone. In nome del padre. Di quello che è a tutti gli effetti il Libero Grassi del nord. Anche se non l’hanno ucciso i clan mafiosi. Anche se si è ucciso lui. Con una pistola che aveva le sue impronte, messagli in mano da signori seri con i colletti candidi.
(scritto sul Fatto Quotidiano del 13 agosto 2016; nella foto Ambrogio Mauri)

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