Denise e Alberto sentinelle nei Balcani. Se il made in Italy è la legalità

L’effervescente Denise e il pensieroso Alberto. Coppie così è difficile trovarne. Non sono moglie e marito e nemmeno fidanzati. Sono semplicemente due italiani che lavorano all’estero. Insieme, per una causa che fa bene al mondo: il dialogo, i diritti e la legalità. A Belgrado, città di antichi splendori, rovine recentissime e nuovi fasti ancora, brulicante di giovani e capitale di una terra ancora in cerca di sé, la Serbia. Qui Denise Mazzolani e Alberto Pasquero rappresentano la missione dell’Osce, Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea, l’organismo nato nel 1975 dalla celebre conferenza di Helsinki, ideata per tenere insieme i due mondi della guerra fredda. Qualcuno penserà a un lavoro da suppellettili della diplomazia, l’opposto degli slanci del volontariato o delle Ong che sbracciano nelle regioni della siccità, della fame o delle guerre. E sbaglierebbe. Perché basta parlare e vivere un giorno con loro, sentirne preoccupazioni e progetti, per capire quanto sia complicata e difficile la loro missione.

“Parliamoci chiaro”, dice Denise, una avvocatessa di Faenza che nella vita ha fatto di tutto ed è stata ovunque, dall’Africa al Salvador (“e l’ho potuto fare grazie a mio marito che merita un aureola grande così”), “l’Osce non può decidere niente, può fare azione di persuasione, vegliare sul rispetto dei diritti; senza considerare che spesso la presenza delle sue missioni, che pure è concordata con i singoli Stati, dà fastidio, talvolta irrita, soprattutto se non fa la bella addormentata. E noi qui in Serbia non vogliamo avere un ruolo ornamentale. Il paese ha rapporti stretti con l’Italia, ci vengono spesso i nostri magistrati, ora verrà anche Cantone, a parlare di lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata con i propri colleghi. Solo che in Serbia la magistratura non è indipendente, e molti buoni insegnamenti non vengono applicati”. Contesto di pace e stabilizzato? Pronto per l’ingresso nell’Unione europea? I due funzionari italiani hanno occhi per vedere (che è poi quello che devono fare). “Senta, noi lo capiamo benissimo che la situazione nei Balcani è ancora precaria, che gli accordi politici hanno coperto i conflitti ma sotto terra qualcosa scorre”. In particolare, avvertono, il principio di legalità sembra ancora fragile, incerto. Serbia, Bosnia, Macedonia, Montenegro, Albania. Una dorsale su cui l’esercizio del potere ha ancora addosso il respiro delle guerre etniche e degli arbìtri di allora. Alberto è la sponda ideale di Denise. E’ più compassato del suo capomissione, è un piemontese di Alba con il vizio degli studi accademici. E’ stato in Kosovo, si è occupato a lungo dei crimini di guerra. Tanto lei è energia di parole, tanto lui è riflessione misurata. Ma sono determinatissimi tutti e due. “Noi dobbiamo fare”, spiega, “e il nostro fare è sostenere la domanda di legalità là dove la storia le si mette di traverso. Dove in tanti hanno paura a parlarne. Fare, in Serbia, è rimediare a questo tacito e grande accordo per cui di criminalità non si parla e non la studia nessuno se non qualche associazione e qualche giornalista”.

Le cronache di Belgrado hanno portato di recente alla ribalta gruppi che la violenza la praticano a testa incappucciata nel centro cittadino in uno stupefacente deserto di polizia. Il solo fatto che un magistrato vicino all’Osce ne abbia parlato citando atti ufficiali ha provocato risposte durissime da parte dei ministeri dell’Interno e degli Esteri. Interferenza, intrusione. Ma i due spiegano che se ci sono problemi loro non sono qui a fare le belle statuine o a godersi uno stipendio all’estero. Che sentono, già, proprio questo aggiungono, di rappresentare un paese che alla causa della legalità ha sacrificato eroi e vite umane. E che loro, da italiani, vogliono agire nello stesso solco dei grandi esempi della loro patria. Nel sole e nella fiumana di giovani che spumeggia per le strade Belgrado la loro piccola presenza sembra un’utopia venuta da lontano. “Dovrebbero nascere centri di ricerca, istituti universitari capaci di occuparsi del crimine, in tutte le sue forme. Dovrebbe occuparsene la classe dirigente, che pure applaude i nostri magistrati dell’antimafia”, dice Alberto. A Denise hanno anche offerto un nuovo posto di prestigio, un’altra città di questa regione del mondo bella e tormentata. “Ma resterò a Belgrado. Perché mio figlio più piccolo ormai la sente come la sua città. Ma anche perché alle proprie missioni uno si affeziona”. Ecco un  altro modo di vedere i nostri connazionali all’estero.
(scritto sul Fatto Quotidiano dell’1.10.16)

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