Piazza Fontana: l’ingiustizia come scienza

Oggi è il 12 dicembre e la prima cosa, la prima immagine che mi viene in mente è Piazza Fontana. Per chi ha vissuto quei giorni è come se operasse una forza di gravità della storia. Che riporta inevitabilmente, appena si pronuncia questa data, alla notizia, giunta a metà pomeriggio, che è scoppiata una caldaia alla Banca nazionale dell’agricoltura, anzi forse è una bomba. Che fa rivedere il cielo nero spaventoso della tarda mattinata dei funerali su decine di migliaia di sguardi ammutoliti. Ma se qualcosa mi è rimasto di quella strage, oltre al dolore, oltre a quella che è stata definita la perdita dell’innocenza per la mia generazione, è la consapevolezza profonda, radicale, di come l’ingiustizia  riesca a travestirsi da giustizia. Seguendo quel processo ho imparato che esiste una scienza dell’ingiustizia, e che il nostro sistema le offre uno spazio immenso per esercitarsi. Che un processo può essere spostato dalla sua sede naturale, Milano, ed essere portato a Catanzaro. Con il pretesto che bisogna tenerlo al riparo dalle proteste di piazza, e in realtà per tenerlo lontano dalla domanda di verità e giustizia a cui deve rispondere; e renderlo più discretamente influenzabile dagli ambasciatori dei poteri occulti. Ho imparato che dopo le condanne del primo grado arrivano le assoluzioni del secondo grado. Non perché sia venuto a galla un clamoroso errore giudiziario, ma perché sempre così si tende a fare se c’è di mezzo il potere, mentre la memoria pubblica si fa più debole e minore è la capacità di resistenza (anche economica) dei familiari delle vittime. Ho scoperto che in questi casi, per ammansire perplessità e costernazione, si getta la colpa sui giudici del primo grado, che non avrebbero indagato abbastanza o non avrebbero valutato adeguatamente questo o quel dettaglio. Lì occorreva andare e non l’hanno fatto.

E ho imparato che poi negli anni, anzi nei decenni, è tutto un gioco frenetico di caselle che si svuotano mentre qualcuno altro ci entra solo di passaggio. E che oltre alle caselle si svuotano anche le carceri, con tanto di evasioni e latitanze protette. I potenti complici muoiono ma il gioco continua a funzionare, come se vi fosse una missione da terminare attraverso le generazioni. E alla fine di tutto  c’è un colpevole, con certezza giudiziaria. Quello da cui si era partiti. Ma non lo si può condannare, o perché il tempo è passato o perché sentenza definitiva vi è già stata. Il gioco degli anni e delle leggi si conclude così: che ci sono diciassette morti e nessuno paga. Anzi pagano i parenti delle vittime, condannati alle spese processuali. Solo che questa nessun ministro l’ha mai chiamata giustizia ingiusta. Mentre io invece proprio a partire da quella caldaia, anzi no una bomba, ho capito che esiste una scienza dell’ingiustizia.  Buona settimana a tutte, buona settimana a tutti.

(testo dell’editoriale del lunedì mattina per Radiopop, 12.12.16)

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6 commenti

  1. In questi casi le spese processuali spetterebbero al Governo oltre al risarcimento alle famiglie. Non capisco perché lo Stato non si costituisce parte Civile..

  2. Lo stesso vile trattamento già applicato al processo per la strage del Vajont. Siamo nati in uno “Stato” così: c’è ancora molto da fare.

  3. Stesso trattamento destinato ai contagiati del plasma infetto:De Lorenzo …Poggiolini. ..ricordate?Evento determinato da lott politica (?) o da corruzione dei politici…..i responsabili sono stati tutelati “tutti”allo stesso modo”SPOSTANDO I PROCESSI DA MILANO A CATANZARO….DA TRENTO A NAPOLI”..Questo è possibile solo quando potere legislativo e giudiziario non sono sinergici ma moralmente compromessi!

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