Un amico nel presepe. Storie di infanzia e di vite parallele
Due anni esatti fa pubblicai questo articolo sul “Fatto”. Mi è capitato per caso sotto gli occhi lavorando al nuovo libro di cui vi ho detto, “Per fortuna faccio il Prof”. Mi sono intenerito e ho deciso di riproporvelo.
Ha compiuto da poche settimane i cinquantanove. Ma ne dimostra un’infinità di meno. Da tempo immemorabile lo rivedo una volta all’anno, una sorta di appuntamento del cuore. Sotto Natale mi ricordo di lui e vado a trovarlo. Abita in un interrato un po’ freddo insieme a certi suoi inseparabili amici e lo invito a casa mia. Qui finalmente trova il caldo e la considerazione che gli mancano durante l’anno. Ha addosso un mestiere umile, antico e ormai desueto, nel quale non ha mai fatto carriera. Ha ancora il grado di quando ha iniziato, succede ogni tanto.
Fa il pastorello in un presepio. Porta un morbido cappello a falde larghe e grigie. Una specie di gilet porpora su una camicia gialla; e pantaloni grigi fino al ginocchio. Le scarpe sono rimaste rosse a dispetto del tempo. Seduto su un pezzo di tronco tiene una sua pecora per il muso con le mani (proprio come in foto). Lo incontrai in una cartoleria di via Parini a Milano, erano gli anni cinquanta. La maestra aveva chiesto a ogni alunno di prestare una statuina per fare il presepe della classe e a me era piaciuto portare quel piccolo pastore che aveva l’aspetto di un possibile compagno di giochi. E che ebbe la ventura di diventare la prima statuina di mia proprietà. Da allora è stato ospitato in presepi molto diversi, perché non è vero che il Natale sospende la storia. Il Natale sta nella storia, e le sue statuine pure.
Così il pastorello ha visto arrivare in fogge arabeggianti il suo primo compagno di colore, e poi, stranezze del dicembre del ’68, ha visto d’improvviso su uno sfondo brutalmente realista i carri armati di Praga, i lanciafiamme del Vietnam e la pubblicità invadente (e imperiale) delle multinazionali. Negli anni delle nostre stragi ha visto la grotta deserta, e i pastori in cammino a cercare il Bambino altrove, tra montagne scoscese e lontane, perché nel solito posto “non è più cosa”. Ha pure trovato via via nuovi compagni, venuti ad aggiungersi a quelli di sempre: dal Messico e dal Perù, dal Tibet e dalla Birmania, dal Portogallo e dalla Danimarca. Figli dei viaggi miei o dei miei amici, a loro volta succedutisi nel tempo, ogni amico incastonato dentro una buona causa. Il maestro elementare che crede nel Vangelo degli ultimi, la prof dell’antimafia, l’editrice indipendente, l’oste della rivolta morale.
Non gli ho mai dato un nome. Il presepio, fino all’Epifania, ne prevede solo tre. Ma gli sono danzati intorno migliaia di nomi. Le storie italiane e del mondo gli si sono materializzate davanti a sua insaputa. Come accadeva ai contadini e ai pastori di un tempo. Senza che nulla sapessero di politica e di regni, le guerre piombavano d’improvviso sulla loro aia portandoli a morire in guerre e per cause sconosciute. Lui sta dove lo si mette, ma capisce, non può non capire, che tra un nostro appuntamento e l’altro qualcosa cambia. Ci sarà una ragione se una sera vede spuntare una casetta e un ponte improbabili fatti e colorati da mani infantili. Se in certi anni vede sparire i compagni di plastica e tornare solo quelli in legno o terracotta o cartapesta non più dalla cartolerie milanesi ma dalle bancarelle di piazza Navona. Se da un certo anno in poi risente acuto, lui che se ne intende, il profumo del muschio. Avverte la lotta per conservare il senso sacro dell’infanzia che lui rappresenta e accogliere al tempo stesso il nuovo che è giusto accogliere, ma solo quello. Ha incrociato la sua storia innocente con tante altre più consapevoli. Persone di famiglia, giovani e poi adulti e poi di nuovo giovani che gli si sono radunati intorno per fare progetti di viaggi o di studio o di lotta, perché è bello usare le feste per programmare l’impegno futuro, così che, anche nella delusione o nel dolore, si abbia addosso sempre il sapore del riposo e della risata complice.
“Pace” dice con il suo presepio. Ma nei dintorni della grotta lo hanno sempre raggiunto notizie di sangue: lo strangolamento della rivolta ungherese, il Vietnam e le sue ipocrite tregue di un giorno, l’assassinio di Mattarella, quelli del generale Galvaligi o di Pippo Fava, la strage del treno di Natale. Senza contare la Storia-mattatoio: fino a oggi, alla Siria, ai bambini di Peshawar. Se ne sta con il muso della sua pecora tra le mani premurose; ora un po’ più verso le stelle della notte, ora un po’ più verso le piccole case illuminate, tra compagni che cambiano e si aggiungono, venendo da lontano. Non si deprime, ha il compito di alleggerire il mondo dei suoi sensi di colpa, resta in quella leggendaria simbologia che appartiene in fondo all’innocenza più che alla religione. Io sono diventato signore assai maturo, lui è ancora bimbo come allora. E’ questa la forza divina dei protagonisti del presepe. La loro età per sempre, ma -diversamente che nei quadri o nei romanzi- sempre rimescolati in nuove coreografie, mossi da nuove mani, combinati con nuovi compagni. Infilati nelle storie, appunto. E perciò capaci di restituire l’infanzia a chi li ospiti e poi li riabbracci come vecchi amici dopo un anno. Ogni volta alleggerito di qualche amicizia, ma mai della loro. Loro che ti appartengono, loro a cui appartieni.
P.S. Quest’anno, come sapete, il pastorello ha ancora una volta cambiato ambientazione. E monta la guardia a “Una Costituzione amica” di Elvio Fassone…
Marco_B
Struggente. marco
Bruna Mencaglia
Bellissimo!
Giancarla Carla Mazzon
Ma che bello questo Racconto !
Barbara Dell'olio
Maribel Rodriguez Aranega
Dony Romy
Bellissimo oo grazie
Stella Petrucci
Bellissimo ,dolce questo racconto!
Anna Leonida
Grazie, Nando. La tua scrittura è magia allo stato puro… 🙂
Francesco Lombardo
❤