Quella pia donna che non incontro più…

La incontravo quasi tutte le mattine andando in università. Prendevo il tram in direzione Duomo, scendevo all’angolo di via Santa Sofia e poi attendevo il 94, una specie di otto volante che nessuno deve avere mai collaudato. Mentre leggevo qualcosa alla fermata, dando le spalle a un edificio popolato di suore e preti dal passo felpato, spuntava lei. Usciva da un cancelletto di quell’edificio. Gentile, raggiante, mai un magone. Mettendomi di buon umore nell’ora più importante del mattino. Mi salutò la prima volta di istinto -non ci presentò nessuno- spiegando ad alta voce di avermi in simpatia. Provai un po’ di imbarazzo davanti agli altri passeggeri in attesa. E mi feci subito domande sospettose: se sarebbe stata invadente, quale favore dovesse chiedermi. Fu molto discreta, invece. La incontrai ancora. E poi di nuovo, con una certa frequenza, come se le sue uscite coincidessero con le mie lezioni. Incominciammo a parlare: io più abbottonato, lei più ciarliera e sempre più cordiale.

Mi accorsi a un certo punto che non mi avrebbe chiesto proprio alcun favore. Semmai, ne avrebbe fatti lei a me. Perché, così scoprii a furia di parlare, fare favori, diciamo fare la carità, era il suo mestiere. Si alzava, usciva, prendeva l’autobus per fare favori. Aveva con sé una borsa piena di fogli e di appunti. E con quella incominciava il giro. Mi spiegò che andava a fare delle commissioni a una anziana signora che abitava in un palazzo di lignaggio nel cuore di Milano. La signora ormai era sola, non più autosufficiente, e aveva bisogno di qualcuno che passasse da casa. Commissioni e compagnia. Mi accennò anche a qualche documentazione contabile alla quale attendeva da un’altra parte. Poi c’era una signora che aveva bisogno di ricette mediche. Si sentiva orgogliosa della fiducia che le veniva accordata. E anche di quello che faceva. Non ci fosse stata lei, la vita di un po’ di persone sarebbe stata peggiore. E credo che saperlo fosse una bella soddisfazione per una donna che aveva da tempo superato l’età della pensione. Nessuna sindrome da inutilità. Dedicava l’ultima parte della vita proprio ad aiutare il prossimo.

Il giro dei suoi beneficati era, stando ai suoi racconti, abbastanza variabile. Ormai eravamo entrati in confidenza. Usciva dal cancelletto minuta e pimpante, con il suo tailleurino marrone, mai un tocco di colore o di chiasso. Solo i capelli avevano l’inconfondibile colore che hanno nelle donne della sua età. Porgeva un accento meneghino che raramente trasmodava nel dialetto. E con quello raccontava storie discrete degli anni passati, che gli altri passeggeri non potevano ascoltare. Un giorno iniziò a salutarmi con due baci sulle guance. Ma non mi imbarazzava affatto. Anzi, mi piaceva riceverli in pubblico da quella pia donna, che mi raccontò essere stata una devota del cardinal Martini (foto). Era come se garantisse a tutti che anch’io facevo parte del mondo dei pii. Mi diede anche un biglietto da visita, annunciandomi un invito a pranzo, ne sarebbe stata felice. Rimase senza seguito, anche perché, temendo di approfittare della sua gentilezza, non mi lanciai propriamente sulla proposta. Con mia sorpresa si avventurò talora in considerazioni politiche, svelandomi praticamente che la pensavamo allo stesso modo.

A un certo punto iniziai a vederla di meno. Seppi che anche un mio amico, un avvocato, aveva fatto amicizia con lei sull’autobus, segno della dimestichezza che le pie donne devono avere con i viandanti. Poi non l’ho più vista per molto tempo. I lavori della nuova linea della metropolitana hanno causato, fra tanti trambusti e incomodi, anche lo spostamento della fermata della 94, sradicandola dall’edificio con il cancelletto. Con l’avvocato ci siamo chiesti dove la nostra amica potesse essere finita, quali percorsi per le sue tante commissioni avesse scelto. Un mattino è fiorita d’incanto sotto una pensilina. Ci siamo baciati d’allegria, sfidando gli zompi dell’autobus mi ha raccontato le buone opere in cui era affaccendata e poi è tornata nel suo edificio con una certa fretta. Da allora non l’ho più vista. Né capelli rossicci, né tailleurino, né borsetta, né saluto gioioso. Mi spiace solo di non averne fissato nella mente il nome. Proprio non lo ricordo, e forse non l’ho mai saputo. Ora aspetto che la fermata venga riportata -tra un anno? due anni?- vicino al cancelletto. Magari ritroverò la signora senza nome che mi trattava come un figlio, anche se aveva solo dodici o quindici anni più di me. Perché un sorriso di primo mattino fa bene, credetemi. E lei lo dava.

(scritto sul Fatto Quotidiano del 22.4.17)

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