Rocco Mangiardi. Ovvero l’imprenditore calabrese che averne a Milano….

Lo ascolti, segui le parole taglienti come colpi di scimitarra e alla fine pensi sconsolato all’abitudine di chiedere a queste persone di coraggio solo e regolarmente “come ci si sente a vivere con la scorta?”. Con l’idea che faccia scena. Ma Rocco Mangiardi non ti cattura certo per i due signori alti in giacca e cravatta che lo sorvegliano discretamente dal pubblico.

Avere letto di lui è un conto. Vederlo e sentirlo, un altro. Questo imprenditore di Lamezia Terme sui sessanta, bassino, modesto e dalla barba cortissima, smentisce la fisiognomica del coraggio. Dovesse fare il protagonista di un serial televisivo non se lo inventerebbero certo così nella sua parte. Ma la storia che racconta, il suo orgoglio di calabrese che dà un calcio alla ‘ndrangheta conquistano d’incanto. “Io non sono un imprenditore come se lo immagina la gente. Ho solo un magazzino di autoricambi nel centro commerciale della città, sono più un artigiano con pochi dipendenti che ha scelto di non dare il frutto del suo lavoro a chi lucra sugli altri con la violenza”. Parla quasi sottovoce, gli devono avvicinare il microfono, ha lo sguardo di un furetto buono. Racconta come incominciò un giorno di circa dieci anni fa. “Vennero in azienda, mi chiamarono fuori. Mi dissero che quel che stavo realizzando era bello, e che sarebbe stato un peccato se con la delinquenza che c’è avessi proprio io subito un furto o un incidente. Mi dissero suadenti che un sistema per evitarlo c’era. Che avrei potuto perfino tenere aperte le porte di notte e non mi sarebbe successo nulla. Capii subito, naturalmente. Ma chiesi lo stesso che cosa avrei dovuto fare. Mi risposero che sarebbe bastato fare un piccolo regalo a zu’ Pasquale. Allora domandai che tipo di regalo dovesse essere. Mi comunicarono una cifra, milleduecento euro al mese. ‘Però questo zu’ Pasquale, davvero di poco si accontenta’, mi dissi con rabbia”.

Lo zu’ era a capo della più nota famiglia di ‘ndrangheta del lametino, i Giampà, Mangiardi lo sapeva perfettamente. Sulle prime cercò di limitare il danno, di arrivare a una cifra sopportabile. Ebbe anche un incontro con lo zu’, che era furente con lui, “mica chiedo l’elemosina, qui”, gli chiarì, “pagano tutti, dalla a alla zeta”. La polizia ebbe sentore della storia ma Mangiardi sulle prime negò per paura. Poi, messo di fronte a una intercettazione, decise di raccontare tutto. Le autorità apprezzarono il gesto di insubordinazione, e ancor più la scelta di metterlo nero su bianco. Perciò gli ventilarono la necessità di andarsene con tutta la famiglia. Sarebbe stato protetto. Il ribelle non ci pensò nemmeno. “Sono loro che se ne devono andare”, disse, “non io”. Loro sono la vergogna di questa terra, ripete nei dibattiti che si susseguono nei giorni in cui l’Italia ripassa la storia di Capaci. Spiega con la voce incrinata quanto abbia contato per le sue scelte lo sguardo della figlia che cercava di capire che cosa avrebbe fatto il padre. Fa un rapido conto pubblico di quanto sarebbe entrato in più nelle casse della ‘ndrangheta se avesse accettato di pagare. Prende per misura quel che in certi atti giudiziari risulta il compenso per un omicidio in Calabria. E conclude: hanno avuto in meno l’equivalente di uno-due omicidi l’anno, sono ricchi lo stesso, ma in ogni caso non uccidono e non appiccano incendi con i miei soldi, questo non glielo permetto. Sempre sottovoce, ma l’applauso esplode lo stesso.

Finché arriva il messaggio finale, rivolto ai giovani ascoltatori. Ricordatevi una cosa, scandisce, la mafia è vigliacca. C’è un luogo in cui noi siamo più forti di lei, ed è il tribunale. Dovevate vederli quando sono stato chiamato a testimoniare in aula. Allora lo zu’ e un suo sodale si presentarono conciati come due poveri diavoli su consiglio degli avvocati. Vestiti modesti, colletto tirato su come se avessero la febbre, la barba un po’ lunga. Il presidente mi chiese se riconoscevo in aula il mio aguzzino. Io gli dissi di sì. In quel momento vidi nello sguardo di lui come uno smarrimento. E puntai il dito con il braccio teso in avanti nella sua direzione. E’ lui, dissi, è lui. Mai successo in Calabria. Il potente boss che sfrutta e spaventa la gente per bene non sapeva più da che parte guardare, perché non se l’aspettava, loro sono abituati alle persone che arrivate in giudizio perdono la memoria e la dignità. E lì ho capito che il dito puntato del cittadino onesto vale di più della loro pistola puntata. Ricordatevelo questo.
Nuovo applauso, sacrosanto. Mentre tutti pensano: averne uno così, al Nord.

(scritto sul Fatto Quotidiano del 27 maggio; pubblicato con colpevole ritardo…)

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