Qui Fano. Angelo, il volontario ignoto del Festival e l’applauso più lungo
Il signore che mi attende è appena fuori dalla porta di ingresso della stazione di Pesaro. Se ne sta di lato e tiene in mano, ad altezza di ombelico, il suo bravo cartello per farsi riconoscere. Tocca infatti a chi arriva identificarlo, perché lui degli ospiti non sa la faccia e a volte non ha mai nemmeno sentito il nome. Mi indica con cortesia l’auto con cui mi porterà a Fano. Bianca, piccola, popolata sui fianchi di vistose scritte aziendali in verde. Mi chiede affabile se è la prima volta che vengo a Fano e a “Passaggi”, il festival della saggistica che sta iniziando. Gli dico di no, preciso anzi che sono tra i fondatori del festival, ma solo perché non si senta obbligato a farmi da cicerone. E’ con certezza estraneo all’apparato organizzativo e questo un po’ mi incuriosisce. E’ da tempo infatti che studio con tenerezza, anche con una punta di ammirazione, i volontari delle migliaia di feste che si celebrano in Italia nella stagione estiva e che danno al paese una vitalità quasi rinascimentale. Di loro cerco di sapere che lavoro fanno, che rapporto hanno con l’evento, a quali altre forme di volontariato si dedicano, se sono single o hanno famiglia. Il mio autista va apparentemente sui sessanta, ha addosso un paio di jeans e una camicia bianca con microscopici fiorellini. Dà l’idea di essere straordinariamente mite e timido. Come mai è venuto lui a prendermi? Perché il volontariato al festival abbonda, anche grazie a progetti di scuola-lavoro; ma per i servizi-auto c’è penuria.
“Poverini”, rivela, “non trovano nessuno e allora mi sono messo a disposizione”. E rafforza il concetto: “La porto in albergo perché poi devo tornare subito a Pesaro a prendere un’altra persona”. Penso che potevamo aspettarla insieme l’altra persona, che poteva portarne due con un viaggio solo. E invece si sta caricando di un avanti-indietro in più perché il festival senza mezzi deve funzionare come se li avesse. Deve brillare di efficienza. Lui fra l’altro non è nemmeno di Fano, precisa, è di Bellocchi. “No, non è un paese antico”, sorride ironico, come a dire “ma che cosa mi sta dicendo?”, “molte vie sono indicate con i numeri romani, non sono ancora state intitolate”.
Del festival ha sentito parlare, ma proprio non lo frequenta. “Non ci capisco niente”, spiega con modestia disarmante, “non sono una persona istruita”. Come può immaginare che mi metta a seguire le presentazioni dei saggi?, sembra chiedere con occhi confidenti. Ma ci sono anche i libri di sport, obietto. Marco Tardelli non lo conosce? “Ah, quello sì, certo, mi hanno detto che l’anno scorso c’era Moser”. Abbiamo trovato l’argomento che ci unisce, dunque. Un po’ questo, un po’ il traffico, che “oggi pomeriggio stranamente non c’è, qui è solo lungomare, in certe giornate si aspetta anche mezz’ora al semaforo”.
Ho pudore a spingere oltre la mia inchiesta sociologica. Ma il lavoro che fa devo chiederglielo, una volta scoprii che sotto la maglietta che sapeva di fritti c’era un professore universitario di fisica. “Sono disoccupato”, risponde. “Lavoravo nell’edilizia, facevo il gruista. Ma ora è tutto fermo. E’ da tre anni che non trovo lavoro”. E allora? “E allora aspetto, intanto mi pago i contributi io, per arrivare almeno alla pensione”. Di nuovo ammirazione. Non per l’espressione rassegnata, ma per questa grandezza pacifica di non inveire (e sarebbe sacrosanto) contro i governi o contro le liquidazioni d’oro di chi fa fallire le imprese di Stato. “Mi pago i contributi”…
Gli chiedo se viaggi molto in auto. Mi sorprende ancora, spunta il cuore gaudente. “Non molto. Però prendo l’auto per andare a giocare a burraco”. Mi scruta di sottecchi, poi spiega: “Qua si gioca ovunque. Una coppia contro l’altra. Tornei a Cattolica, a Rimini, a Porto Cesenatico. E io ci vado”. Ride di gusto, stavolta. Poi mi lascia all’albergo. Nella grande piazza medievale si stipa la folla delle grandissime occasioni, c’è Romano Prodi in gran spolvero (in foto) a raccontare “Il piano inclinato” dell’Italia. Tutti soddisfatti, il lavoro organizzativo è stato lungo, gli ospiti e il pubblico hanno risposto, come da qui a ottobre accadrà in altri festival in tutta Italia. Chiedo il nome dell’autista. Sguardi incerti, ricerche. Alla fine c’è chi lo sa: Angelo.
Così penso alla bellezza di chi si mette “a disposizione” di qualcosa di buono pur sapendo di capirne poco, senza trarne gloria in brindisi collettivi, ma solo perché “ce n’è bisogno”. Se il pubblico lo sapesse farebbe un applauso, forse l’applauso più lungo e caloroso, alla figura del volontario ignoto.
(scritto sul Fatto Quotidiano del 24.6.17)
riccardoorioles
Qualcuno sa ancora raccontare l’Italia.