Tata Rosa. Storia di tre bimbi e di un cuore grande per loro

Il suo nome era Rosa. Mai “donna Rosa”, non le spettava. Semmai Rosetta. Come le bambine. D’altronde se n’era andata di casa, Orta di Atella, allora provincia di Napoli, ancora ragazzina, diciassette anni, alleggerendo la famiglia Di Lorenzo del compito di sfamarla, lei tra i più grandi di dodici figli. Si era presentata un’occasione irripetibile nel dopoguerra campano: andare a servizio in una famiglia borghese di passaggio a Casoria, prendersi cura della loro bambina. Rosa ci arrivò senza sapere nulla del mondo. Lo conobbe attraverso quella che sarebbe diventata per tutta la vita la “sua” nuova famiglia. Altre abitudini, altri linguaggi, rigorosamente l’italiano, nessun dialetto. E nuovi affetti. La famiglia borghese crebbe, arrivarono altri due bambini e lei, da Rosetta che era, divenne la tata di tutti. Non “tata Rosa”. Ma “Tata” e basta. Figura fissa della famiglia, al cui servizio mise non solo il cuore e l’onestà (sulla quale avevano tutti garantito) ma anche le proprie abilità gastronomiche. Faceva una pizza eccellente e torte spettacolari, e pasta al forno, e patate e cipolle, le cose che si insegnavano attraverso le generazioni a casa sua. I tre bambini le venivano spesso lasciati in custodia, e lei li custodiva come una madre. Una volta sventò coraggiosamente il tentativo di un paio di zingari di rapire la più piccolina.
Non aveva potuto studiare, e le dispiaceva. Perché non poteva aiutare nei compiti. “Sono ignorante”, ripeteva, e imparò a leggere e scrivere nella nuova casa. In compenso sapeva garantire divertimenti e gioia nel tempo libero. La palla fatta con carta di giornale, i giochi ai giardini pubblici, le canzoni in compagnia. La famiglia a cui si era unita era intanto passata per tante città, portandosela sempre al seguito, con lei che spendeva una parte del salario per comprare giochi ai “suoi” bambini o far fare loro il giro sull’asinello. In realtà una bambina tutta sua, che la chiamasse mamma, la ebbe. Una relazione sfortunata e in cui sentì doppiamente il peso dell’abbandono, quasi una certificazione dei suoi limiti, un difetto alle gambe eredità di una poliomelite infantile. Fu aiutata dalla famiglia di adozione a gestire, e allora era difficile, la nuova situazione di ragazza madre. Ne serbò gratitudine.

I bimbi crebbero e Rosa iniziò i suoi viaggi al servizio di altre famiglie. Che misurava esclusivamente dalla gentilezza dei modi, non dai soldi. Se la consideravano la tata o la cameriera. Andò anche all’estero, pure in America, poi tornò da una nobile famiglia fiorentina. E a Firenze si sposò con un bravo giardiniere che non la prese in giro, e da cui ebbe un altro bambino. Alla fine volle riposarsi, dopo tanto girovagare e lavorare duro. Ora aveva la sua di famiglia a cui pensare, e la sua casetta di via Bolognese, sulla salita in periferia che portava verso Fiesole. Niente ascensore e una lunga, ripida scala che scoraggiava le uscite superflue.

Continuò a volere bene a chi l’aveva accolta la prima volta e ai tre bambini di un tempo diventati grandi. Quando circostanze di morte si scatenarono su quella famiglia, ne riempì la casa di foto, che la immalinconivano e le ricordavano, così diceva, la felicità della giovinezza e anche l’orgoglio di averci lavorato. Quando si fece anziana il giardiniere generoso si spense al suo fianco. Rosa vide i figli studiare e farsi una posizione, anche se non mancò il dolore, il genero stroncato al cuore a cinquant’anni. Dalla sua casa seguiva le cose del mondo come poteva, ma sempre con una straordinaria capacità di giudicare (in foto è in primo piano a destra, accanto alla signora Bettina Caponnetto, la moglie del grande magistrato, alla libreria Feltrinelli di Firenze). Finché le gambe la costrinsero a chiudersi in casa, quasi prigioniera. Preparava ancora la pizza e il caffè per chi la andava a trovare, affittò una delle due sue stanze per vivere un po’ meglio. Poi la malattia e lo spegnimento progressivo. Fino alla scelta, per vergogna, di non farsi vedere dai bambini di un tempo se la passavano a salutare. Una diagnosi sbagliata, un tumore scambiato per dissenteria, come succede più spesso ai poveri.

Se ne è andata pochi giorni fa, in ospedale, quasi da sola, nella stagione in cui le persone care sono via. Perché il destino sa essere inclemente più volte. E’ stata storia italiana fino in fondo: la povertà dignitosa del sud del dopoguerra, la ragazza che parte di casa per “andare a servizio”, la ragazza madre che deve affrontare i pregiudizi del mondo, l’emigrazione, il marito e i figli, la tranquillità, la terribile solitudine finale degli anziani. Ma è stata soprattutto storia di un grande cuore. P.S. Io ero uno dei tre bimbi.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 29.7.17)

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