Asinara: dove la targa di Falcone e Borsellino è onorata anche di notte (ovvero: il signor Gavino e gli studenti)

Nella notte in cui cadono decine di stelle, appena dopo l’una e mezzo si forma un piccolo corteo. Discreto, silenzioso, annunciato solo da un leggero scalpiccio di passi. Cala d’Oliva, isola dell’Asinara: di qua acque verdi trasparenti sotto la luna, di là il minuscolo borgo dove si riuniscono il bar, l’ostello e pochi appartamenti sul piano della strada, sorvegliati dall’alto dal carcere bunker riservato un tempo a Renato Curcio e Totò Riina; ora abbandonato, come pure il bellissimo, romantico campo di calcio che lo sovrasta.

Il corteo è composto quasi esclusivamente da giovani che hanno preso d’improvviso la decisione di uscire dalla loro foresteria, raggruppandosi fuori alla spicciolata. Appaiono quasi emozionati, e nessuno potrebbe mai immaginare le ragioni di quella mobilitazione notturna. Sono un po’ più di venti studenti dell’università di Milano. Si occupano di mafia e di criminalità organizzata. Ne hanno discusso e ragionato fino a quell’ora, studiando i sequestri di persona nella storia della Sardegna. Poi il repentino passaggio a qualcosa di più attuale. L’anniversario della strage del 2 agosto. E la folgorazione collettiva: quella grande targa che campeggia a cento metri da lì, forse i fatidici cento passi, all’inizio della strada verso Cala Sabina. La targa della Casa Rossa, il luogo dove, come viene ricordato nella pubblica scritta, soggiornarono un’estate, arrivandoci più o meno negli stessi giorni d’agosto, i giudici dioscuri, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mandati precipitosamente sull’isola con le loro famiglie dopo gli assassini dei commissari Beppe Montana e Ninni Cassarà, e del giovanissimo agente Roberto Antiochia. Lo aveva deciso il loro capo Antonino Caponnetto per sottrarli a quella che appariva una furia incontenibile in vista del maxiprocesso, alla cui sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio stavano lavorando i due magistrati. E’ diventato anche un film, “Era d’estate”, quel soggiorno forzato nell’isola delle supercarceri, a contatto con uno dei mari più belli del mondo.

La targa ricorda appunto che cosa avvenne alla Casa Rossa nell’estate del 1985. La apre la celebre frase di Borsellino, “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”, seguita da quella altrettanto celebre di Falcone sulla non invincibilità della mafia, che ha un inizio e avrà anche una fine. Una targa che dovrebbe essere un monito; ricordando che i giudici che rappresentavano lo Stato vivevano come latitanti, mentre i celebri “latitanti” facevano nascere i figli nel centro di Palermo.
Eppure nelle scorse settimane quella targa era sbiadita, praticamente illeggibile. Saranno state le intemperie e lo scorrere del tempo, ma sembrava una forma di oblio morale insopportabile. Per questo un signore del posto, Gavino si chiama, senza alcun rapporto né con la giustizia né con l’antimafia ma solo rispettoso di quelle vite al servizio dello Stato, si è armato pochi giorni fa di un pennello a punta sottile e di un po’ di inchiostro nero; e ha ripassato tutti gli spazi incisi. Restituendo al luogo un senso. L’ha fatto da solo, senza che nessuno sapesse, per puro dovere civico. Gli studenti ci sono poi passati davanti. E a loro volta si sono chiesti perché, mentre si celebrano i 25 anni delle stragi palermitane, non ci fosse nemmeno un fiore simbolico. E la risposta è stata che l’isola è parco nazionale e i fiori non si possono toccare, mentre se si prendono a Porto Torres arrivano già spappolati dal caldo. E allora le dozzine di barche che ormeggiano tranquillamente a riva?, si sono chiesti. Hanno pensato che il parco avrebbe volentieri ceduto un infinitesimo di sé per risultare più umano.

Così hanno preso pochi e piccoli fiorellini, specie non protette in dirupi sconosciuti, oleandri e fiori di campo, uno qui uno lì; li hanno riuniti in minuscolo mazzetto, confezionandoli con amore, e in silenzio come il signor Gavino li hanno portati sulla targa, fermandoli con scotch trasparente. Senza dire una parola durante i loro cento passi, senza un applauso. Fissando commossi i fiori e la scritta della targa, e pensando che la gratitudine passa anche per un pennello e fiori lunghi un dito. Che testimoniano, insieme, la pietà umana e la riconoscenza di un’isola. Marta e Giulia, che si erano incaricate della confezione, avevano le lacrime agli occhi. Li avevano anche Desnica, nato a Belgrado, e Patricia, nata a Città del Guatemala. Perché possono rompere i busti, imbrattare e demolire le stele. Ma la memoria non ha confini né di tempo né di spazio.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 5.8.17)

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