Pianto di madre. Quella piccola pozzanghera improvvisa

Vi parlerò dell’acqua. Un pugno di gocce d’acqua entrate d’improvviso nella mia testa mentre camminavo con pudore tra le storie altrui. Quanti cucchiai o specchietti d’acqua incontriamo, in fondo, nella nostra vita? Un’infinità. Nei bicchieri di carta abbandonati in treno o su un tavolo. O mezzo metro sotto la sabbia, mentre aiutiamo un bimbo a sognare il suo castello. O in un’acquasantiera asciutta solo di lontano.
Stavolta l’ho incontrato in un ospedale milanese. Non riposava in alcun recipiente, ma luccicava per terra. Non aveva piovuto dentro la struttura, né vi erano state perdite d’acqua dai soffitti, come ogni tanto accade. Semplicemente, sul lineolum del pavimento si era depositata una piccola pozzanghera. In silenzio, inavvertitamente. Per materializzarsi d’improvviso. L’aveva lasciata, come segno involontario del suo passaggio, una donna. Una madre. Uscita per qualche minuto dalla stanza in cui stava vegliando da giorni il giovane figlio che resisteva alla morte senza più speranza. Lei e il marito, per giorni e notti rinchiusi lì, ad accompagnare il giovane verso il passaggio estremo, che sarebbe avvenuto dopo poche ore.

Era uscita, la donna, per salutare alcuni amici. Aveva raccontato. Non aveva spiegato, perché tutto era già chiaro a chi era andato in visita. Solo pochissimi dettagli. Del prima, del dopo, di quando tutto era iniziato. E qualcosa aveva ricordato, di sé, del figlio, delle vite comuni. Con parola sofferente. Di quando era bambino e poi ragazzo, immagini che tutti condividevano istantaneamente, avendolo visto crescere negli anni. Il cucciolo di lupo trovato in dono a Natale, un pacco di meraviglia e felicità sotto l’albero. Le vacanze, i riccioli scuri, la scuola. L’università, studi appassionati. I sogni della professione appena iniziata. Lampi di vita che tornavano e poi chissà se era lei a farli tornare o era l’emozione di quei pochi convenuti, la cui memoria andava su e giù vertiginosa come non potevano le parole, inibite dal timore di essere troppe. Ma le parole e il ricordo nulla erano davanti al dolore che lei portava in volto. Un dolore che si annunciava senza fine. Esattamente come a volte nello sguardo felice di un bambino sembra concentrarsi per magia tutta le felicità possibile del mondo, così nel dolore di una madre sembra a volte che si concentri implacabile, duro, misterioso, il dolore del mondo e della storia. Qualcosa di assoluto. Non riassunto, non sintesi. Ma concentrazione fulminea, come la nostra mente mai potrebbe concepire. E’ allora che riscopri il senso universale di Maria. Che la maternità si svela a tutti come qualcosa di superiore, di divino.
La donna si abbracciò con una di lei molto più giovane, si guardarono negli occhi a lungo con una intensità che poche volte ho visto, un altro abbraccio, poi lei rientrò nella sua stanza per le ore dell’addio. Ma prima di rientrare si voltò, il viso rigato dalle lacrime, e mosse verso di noi il dito come a esprimere un divieto, di cui in quel momento trovò tutta la forza: non si toccano i figli, disse. E fu come se rivolgendosi a noi volesse rimproverare una entità superiore che dispone delle vite e delle cose degli uomini, quasi a ricordare che anche alle volontà superiori dovrebbe pur essere fissato un limite, uno solo, stabilito dalla misura possibile del dolore di una madre.

Rientrò. Restò apparentemente privo di lei quel luogo di angoscia e di speranza. Con la malinconia che ogni giorno vi si concentra, e che ci si rappresentava in un andirivieni inestricabile di vicende umane, sottratto alla vista di chi fuori grida e ride e gioca, nella sua innocenza o nella sua ribalderia. A un certo punto scoprii sul pavimento quella piccola pozzanghera. Proprio nel metro quadro in cui si era fermata lei. Erano le sue lacrime. Non ce n’era una sola. Era proprio una minuscola pozzanghera. Che si era formata senza che ce ne accorgessimo. Nulla avevamo visto scendere e poi cadere dalle sue guance, prendere il volo verso terra. Tutto era stato naturale. Un po’ come nel racconto di Carlo Levi la madre di Salvatore Carnevale. Le lacrime che si fanno parole e le parole che si fanno pietre, “i figli non si toccano”. Parve a me, e non a me soltanto, che quelle gocce d’acqua che sembravano volere stare tutte insieme come per solidarietà di giuramento, fossero una specie di miracolo. Che illustrassero il dolore come mai mi era successo di vederlo. Piccolo specchio di qualcosa di infinito. Storia individuale che si faceva storia assoluta. Per dare una misura a tutte le altre storie e al nostro cammino.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 16.9.17)

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22 commenti

  1. Nando dà voce, con delicatezza e rispetto, a storie che ci scuotono dentro perché ci riportano alle priorità della vita. Grazie, ne abbiamo bisogno, nel frastuono di parole inutili in cui siamo sommersi…

  2. Ed ora sono io a raccogliere le mie lacrime … sono una madre che ha perso un bimbo e nelle tue parole ho letto la mia storia … era come se tu stessi leggendo nella mia anima e portando alla luce il dolore mio e di tutte le madri.
    Non ho parole per la tua grande sensibilità… Un abbraccio

  3. Non è mai facile trovare parole per esprimere un dolore. Meno che mai per quello di una madre quando madre non lo si è. Grazie per la commozione e per la delicata costrizione del lettore ad immaginare, immedesimarsi e sentirsi coinvolto. Uno scritto di grande valore umano ed emotivo…

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