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Paola Monzini. Il cuore grandissimo di una sociologa gentile e illegolare
In principio è lo stupore. La chiesa di San Marcellino appare splendidamente incastrata nella Federico II. Entri nell’antichissima università di Napoli e resti incantato davanti a questo tesoro architettonico. Dove si tengono lezioni e convegni mentre lo sguardo vola su marmi e stucchi, ori e dipinti, un soffitto a cassettoni che basterebbe da solo a spremere la meraviglia. Il convegno non parla di arte, però, e nemmeno tratta le grandi questioni del mondo. Racconta invece una donna che quelle grandi questioni le vedeva e sempre più voleva vederle da vicino. Finché se ne è andata. Per sua volontà, nel modo più drammatico. Senza spiegazioni. Lasciando tutti a interrogarsi sul perché e sulle proprie colpe, anche chi coltivò con lei lunga amicizia.
Sono passati mesi da quella scelta. E un gruppo di sociologhe sue amiche ha voluto ricordarla. Con una mattinata di studi e riflessioni dedicata a Paola Monzini, come la donna si chiamava. Davanti a un centinaio di studenti e dottorandi, che fino a ieri nulla o quasi sapevano di lei, brava ma non famosa. Ma che hanno scelto di esserci lo stesso: per curiosità, per istinto, per l’affetto contagioso che hanno intravisto in quell’incontro. Non è davvero normale commemorare così, nel paese che sempre più spesso separa la commemorazione dalla memoria, le parole dal cuore.
Tutto viene ricordato di Paola. Di quando ragazza, erano gli ultimi anni ottanta, decise con la sua amica Chiara di fare una tesi di laurea sulla mafia, e allora proprio non usava, soprattutto a Milano. Di quando andò per questo a intervistare Falcone, di cui s’era imparato a memoria il numero di telefono per paura di lasciarlo scritto in giro. E proprio quell’intervista cala come un eccezionale documento a voce nel silenzio della chiesa. Paola che studia e scrive, che va a fare la consulente per la neonata Direzione investigativa antimafia, che affronta con competenza materie trattate all’epoca con tenace dilettantismo.
E che poi sceglie di occuparsi di una materia oggi obbligatoria per i governi: il mercato delle donne. Nel mondo che si riempiva la bocca di pari opportunità, che in ogni sede internazionale stilava codici etici per la promozione della donna, si aprivano per il genere femminile gli abissi dello sfruttamento, delle nuove schiavitù. Lei ci si gettò con entusiasmo. Fuori dalle accademie e dalle istituzioni culturali, crebbe a contatto con altre istituzioni dedite direttamente ai grandi temi del pianeta in subbuglio: Fao, Osce, Unicri, Onu. Mossa da una sensibilità di bambina e da un intuito di ricercatrice esperta. Sorretta da quell’immaginazione senza cui lo scienziato sociale diventa un pollo di batteria, con il suo consueto repertorio di citazioni colte. Viaggiò per andare a vedere terre e nazioni e poi raccontò i faticosi viaggi altrui. Come quelli per l’inferno del Sahara, dall’interno dell’Africa fino alle nostre coste. Fece un rapporto su ciò che avremmo tutti saputo pochi anni fa, ma non piacque all’istituzione internazionale che aveva finanziato la ricerca. La quale per il timore di screzi diplomatici con questo o quello Stato africano prese la decisione, che lei contestò a lungo e invano, di non pubblicare il rapporto in libro. La ricerca attraverso le biografie erano la sua passione. Da una di esse nacque un libro bellissimo, Il mio nome non è Wendy (in foto la copertina) tratto da una lunga e partecipe intervista a una ragazza nigeriana.
Tutto questo si è dunque raccontato nella chiesa degli stucchi e dei marmi. La cui grandezza barocca si è come trovata china sugli ultimi della terra attraverso la figura di una sociologa gentile e irregolare, che non ricevette onori dall’accademia.
E commuoveva, nell’atmosfera sempre più raccolta, la commozione che prendeva le sociologhe sue amiche, la loro voce che ogni tanto si spezzava, Monica, Ombretta e le altre. Poiché queste cose si fanno normalmente per ottenere, attraverso il ricordo, prestigio e medaglie per una categoria. O per ritagliarsi briciole di gloria pubblica, come quando la commemorazione riguarda persone di gran fama o gradite al potere. Stavolta tutto è sbocciato dall’amicizia, che non ha voluto arrendersi a una assenza mai immaginata. Da una meravigliosa solidarietà femminile verso la compagna di viaggi ed esplorazioni che ha scelto un giorno di andarsene, lasciando affetti ancora acerbi. La solidarietà femminile… a volte sembra una pia invenzione. Un’ipocrita leggenda di genere. Ma quando c’è, vi assicuro, scalda i cuori, spezza le voci, riga perfino i volti. Come una corrente contagiosa.
(scritto su Il Fatto Quotidiano di lunedì 13.11.17)
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