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Le mode che accettiamo. Come ti trasformo il ristorante in un pollaio (senza scontrino)
Sono di quelli che provano orrore per come sono costrette a vivere le galline che fanno le uova per noi. Figurarsi quindi se non provo qualcosa di simile quando vedo che qualcuno rifila analoghe condizioni agli esseri umani. Mi è capitato ieri sera in un ristorante sardo del centro di Milano. Uno di quelli con cui è convenzionata la nostra università, e in cui ho portato un collega di Pisa (pagando in proprio la mia parte). Il collega mi ha chiesto perché noi di Milano non possiamo scegliere il ristorante che vogliamo , fermi restando i tetti di spesa. Gli ho risposto che noi siamo speciali, in pratiche di burocrazia assurda battiamo la qualunque. Ma il fatto vero è che quando siamo entrati in questo ristorante (convenzionato) sono rimasto a bocca aperta: i tavoli per due sono striminziti, si fa fatica a tenerci insieme i due piatti uno di fronte all’altro, le bottiglie dell’acqua e del vino e il piccolo cestino del pane. Altro non ci sta, e anche così c’è tutto un delicato gioco di geometrie da rispettare. Lo fanno per guadagnare spazio, per avere più tavoli in sala. E per incassare di più. E infatti i tavoli, a loro volta, sono distanti tra loro venti centimetri. Sicché se pensate di andare a cena insieme (oh che idea pazzesca!) per scambiare opinioni o confidarvi qualcosa, figurarsi per corteggiare, ecco, scordatevelo. Tutti schiacciati. Tra di voi e con gli altri avventori.
Non solo. Appena entrati avete subito l’idea di dovere fare in fretta, molto in fretta. Non vi siete ancora seduti che già vi arrivano forme sottili di focaccia accanto al piatto. Direte: meno male che c’è qualcuno che non fa aspettare. E invece qui è troppo. Dopo un minuto che siete seduti, nemmeno il tempo di aprire il menu, vengono a chiedervi che cosa ordinate. Per favore un attimo. Intanto il cameriere che passa dietro la vostra sedia per andare al tavolo alle vostre spalle vi fa scivolare dalla sedia il giaccone, perché non ha spazio, il poverino, e nemmeno, d’altra parte, esiste uno spazio per cappotto o soprabito. Mangiate e intanto tirate su il giaccone, continuamente. Si mangia anche benino. Ma a un certo punto vi viene l’idea di essere polli di batteria. Il più stretti possibile, il più in fretta possibile, perché poi deve arrivare il secondo turno, mica glielo vorrai far perdere, no? Dico al mio amico: “e invece sì, ordineremo amari fino a fargli perdere il secondo turno”. Nulla, vincono loro. Il frastuono, un nuovo cliente nel tavolo accanto al tuo, l’impressione di sentirne l’alito sul piatto. Sconfitti,e io ormai deciso a non metterci più piede (la qualità della vita, signori, la qualità della vita…), ci alziamo dopo il primo. Se ne vanno via? Tutto bene? Niente altro? Tutto bene, non si preoccupi… Vai a pagare, paghi, e quando sei distante ti rendi conto che non ti hanno dato nemmeno lo scontrino fiscale, bensì una roba da “presentare alla cassa”, come se noi non fossimo andati direttamente proprio alla cassa. Insomma: un vero tormento e in più l’evasione fiscale (testimone e falso scontrino possiedo).
Solenne comunicazione ufficiale, dunque. Io in questo ristorante sardo nel centro di Milano non ci torno neanche a morire. Piuttosto pago anche per l’ospite. Seguono pensierini della sera sulla burocrazia universitaria, su come ci adattiamo a ciò che ci fa male, sull’evasione fiscale ecc. Per fortuna mi era arrivata una meravigliosa cassa di arance da antichi amici di un ristorante di Caltabellotta (ma sì, lo dico: il Mates). E mi sono rifatto. Su un tavolo di cucina tutto per me, con un’arancia che sembrava un pallone, che meraviglia…
Nando
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