Storia di Lorenzo il Magnifico, l’allenatore che fece vincere il Napoli Club in Alto Adige

L’idea che fosse un bel tipo me l’ero fatta subito. Ma che avesse dedicato una vita allo sport è venuto fuori chilometro dopo chilometro. Perché il signor Lorenzo Tibolla era stato mandato a farmi da generoso autista da Milano verso Bolzano. Frasi gentili, brevi racconti di sé, come tra due persone che non si sono mai viste e che devono trascorrere una accanto all’altra più di tre ore. Dopo Brescia il discorso finì chissà come sul calcio. Argomento che mal sopporto se riferito al presente, ma che mi riempie di passione e tenerezza se riferito al passato. Si parlò di qualche calciatore di tanti decenni fa, appunto. Di Gigi Meroni, la farfalla granata; soprannome, gli spiegai, che era uscito dalla mia fantasia di antico tifoso. Mi accorsi che la sua considerazione per me era salita di colpo. E continuò a salire quando si rese conto che sapevo anche la formazione con la quale il Bologna aveva, ahimé, battuto l’Inter nel 1964, nell’unico spareggio mai giocato per lo scudetto. Capì di avere accanto uno della sua specie, che è cosa sempre bella, mentre già ci avvicinavamo ad Ala, ai castelli che aprono al Trentino, in una giornata in cui il sole si era fatto lama scintillante che entrava e usciva da ogni valle.

Fu in quei momenti che mi confessò che da giovane aveva fatto il calciatore. E a quel punto fu la mia considerazione verso di lui a crescere di colpo. Ma quale dipendente dell’azienda di soggiorno di Bolzano, pensai, avevo accanto un ex calciatore. Ma ho giocato nel Merano. In quarta serie, si schermì. Gli risposi che comunque io non ci ero mai riuscito e che quindi non potevo che ammirarlo. Mi spiegò che veniva a giocare in tutti i paesi della Brianza che finiscono per “ate”, Casate, Solbiate, Carate…. Ricordava in particolare il campo della Caratese. Campi belli, con l’erba ben tenuta. Spiegò che una volta l’allenatore, un ex terzino della Fiorentina, Pino Longoni, lo aveva segnalato all’Alessandria. Fatto il provino, era stato preso, aggiunse con pudico orgoglio. Giocava a centrocampo, “potevo durare due partite”. Estate1978. Il tempo di trovarsi con i giocatori visti sulle figurine, ed ecco durante il ritiro un’ernia inguinale. Recupero troppo lungo. “Ora si guarisce in una settimana”, mi precisò con una punta di nostalgia. Riprese perciò a giocare in Trentino, nel Passirio, durò fin quasi i trentacinque. Poi iniziò a fare l’allenatore. La Stella Azzurra, dai pulcini agli esordienti.

E qui decisi che era veramente della mia stessa specie. Mi disse che il calcio drogato di oggi lo disgusta, ma che il calcio giocato dai ragazzini è bellissimo. Che l’allenatore ha anche il compito di educare. Che cosa c’è di più bello che educare attraverso lo sport? E sa, mi disse, che per riuscirci bisogna combattere con i genitori, sono loro che mettono nella testa dei figli le idee che li guastano, sono loro a urlare da fuori dal campo gli incitamenti a picchiare? Il fisico asciutto e il portamento da quarantenne assumevano lungo i chilometri una fragranza particolare. Mi raccontò di avere poi allenato in provincia di Bolzano una squadra fondata da un gruppo di napoletani emigrati, ce ne sono diversi in Alto Adige. Che la squadra si chiama “Napoli club”, ed è totalmente ispirata alla buona etica sportiva, e che ci si trovava benissimo. Ma che una volta proprio lui diede ai ragazzi il cattivo esempio, alzandosi dalla panchina e insultando l’arbitro e facendosi espellere per quattro giornate. Il fatto è che davvero, alla fine, non ce aveva resistito. Il loro girone si giocava tutto nelle valli tedesche. Dove gli arbitri altoatesini perseguitavano la squadra perché aveva quel nome così straniero e così sudista, Napoli, e per giunta quattro nordafricani in campo, e avvantaggiavano oltre ogni decenza le altre squadre. Doveva essere lui, lui di Bolzano, a reagire. Poi, e la testa si voltò soddisfatta alla sua destra, nonostante gli arbitraggi il Napoli Club vinse il campionato allievi. Era stata quella la soddisfazione sportiva più grande della sua vita. “Quando vado in pensione vorrei allenare ancora i ragazzini”, mi confessò.

Arrivammo a Bolzano. Mi parlò dell’uomo delle nevi che riempie il museo. Scoprii che mi aveva regalato una felicità innocente. Il calcio del passato e quello dei ragazzi che lo giocano ancora con spirito di poesia. L’idea di quel Napoli che vinceva a Bolzano mi dava una inimmaginata idea di giustizia nelle umane cose. Avevo fatto due viaggi insieme, nello spazio e nel tempo. E pensai che queste fortune spesso nemmeno le vediamo. Per questo ve l’ho raccontata.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 15.2.18)

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