La “Rivelazioni” sull’omicidio Tobagi. A proposito di fake news
Pubblico oggi sul mio blog questo articolo di Ferdinando Pomarici e Armando Spataro uscito ieri 28 gennaio sul “Corriere della Sera”. Ne capirete le ragioni. E ancora di più capirete come siamo sottoposti a una massa di notizie non verificate
Delitto Tobagi, i pm: «Nessun mistero, tutto chiarito 30 anni fa»
I due pm: il delitto non fu preannunciato da notizie confidenziali
di Ferdinando Pomarici e Armando Spataro
“L’omicidio di Walter Tobagi del 28 maggio 1980 è un atto terroristico di cui
tutto si sa e intorno al quale non esistono misteri e reticenze. Le
indagini, peraltro, furono portate avanti dai Carabinieri del generale Dalla
Chiesa e guidate da due ufficiali di sua fiducia, tra i migliori
investigatori che abbiano mai operato in questo Paese. Purtroppo però, a
distanza di quasi 38 anni da quella tragedia, c’è ancora qualcuno che ne
parla come di un caso di giustizia negata, adducendo ragioni prive di
qualsiasi fondamento. Già a ridosso del fatto, la Procura di Milano era
stata accusata di non avere voluto indagare sui mandanti dell’omicidio,
addirittura chiedendo al collaboratore Marco Barbone di tacere sul loro
ruolo in cambio dell’impunità della sua fidanzata, del tutto estranea ai
fatti. Queste ed altre «verità alternative» sono state tutte propalate dopo
la morte del generale dalla Chiesa: con lui vivo nessuno avrebbe avuto il
coraggio di accusarlo, insieme ai suoi uomini, di incapacità e reticenza. Ma
certe assurde tesi fanno talvolta breccia nel Paese, alimentando
inattendibili ricostruzioni di tanti fatti di quegli anni (basti pensare ai
falsi misteri sulla scoperta della base B.R. di via Monte Nevoso), basate su
quelle che oggi si chiamano fake news.
Tornando all’omicidio Tobagi, tutti
gli interrogativi sollevati in questi anni, non sempre in buona fede, hanno
trovato puntuale risposta nelle decisioni definitive dei giudici,
riguardanti non solo i processi per l’omicidio, ma anche quelli per
diffamazione originati dalle querele proposte da ufficiali dei Carabinieri.
Il confidente e la tesi
Due settimane fa, è stata di nuovo rimessa in circolo la storia, secondo cui
un confidente (detto «il postino») avrebbe preannunciato ai Carabinieri –
rimasti inerti – il progetto di omicidio di Tobagi, rivelando persino i nomi
di chi lo avrebbe eseguito (cioè, Barbone e gli altri componenti della
Brigata 28 Marzo che rivendicò l’agguato). Dopo l’omicidio i carabinieri
avrebbero occultato tali confidenze per nascondere la propria incapacità di
prevenirlo e la Procura di Milano, venutane a conoscenza, li avrebbe in
qualche modo coperti. La verità è però un’altra: il confidente, divenuto
tale dopo una perquisizione disposta dai pm di Milano, rivelò nel dicembre
1979, ad un brigadiere (detto «Ciondolo») che teneva i rapporti con lui, che
un esponente dei Reparti Comunisti d’Attacco gli aveva parlato di un’azione
che il suo gruppo voleva compiere a Milano. Non gli aveva detto altro. Il
«postino» aveva allora ipotizzato che il piano potesse essere quello di un
attentato in danno di Tobagi, aggiungendo che, all’inizio del ‘78, le
Formazioni Combattenti Comuniste, scompaginate nell’autunno dello stesso
anno a partire dall’arresto di Corrado Alunni, avevano progettato di
sequestrare il giornalista, abbandonando poi il progetto stesso. Nel 1978,
si badi bene, il gruppo di Barbone – Brigata 28 marzo – non esisteva ancora.
E non esisteva neppure nel 1979, quando «il postino» rivelò questa storia e
formulò la sua ipotesi, che non pose in alcun modo in relazione con Barbone
ed altri membri del suo futuro gruppo. Pur in presenza di una mera ipotesi,
i Carabinieri avevano subito attivato dei servizi di osservazione nei pressi
dell’abitazione di Tobagi per individuare eventuali terroristi che ne
stessero studiando le abitudini. Visto l’esito negativo di quei servizi,
l’ipotesi del «postino» venne giustamente ritenuta infondata. A Tobagi,
peraltro, come confermato dall’ex ministro dell’Interno Virginio Rognoni,
era stata in passato anche proposta la protezione personale, che egli aveva
rifiutato. Circa sei mesi dopo, nel maggio 1980, la Brigata 28 Marzo – non
collegata alle ormai disciolte FCC o ai Reparti Comunisti d’Attacco, né
coinvolta nel progetto di sequestro dell’inizio del 1978 – uccise il
giornalista. Né «il postino», né alcuna delle persone da lui nominate vi
ebbero un qualche ruolo o seppero alcunché dell’azione in preparazione.
Tutto questo «il postino» in persona aveva dettagliatamente spiegato anche
nel giugno del 1985, durante il processo d’appello per l’omicidio Tobagi,
quando era ormai emerso il suo ruolo di confidente, che – come si sa – la
polizia giudiziaria ha sempre il diritto di celare. E il componente dei
Reparti Comunisti Attacco, fonte della ipotesi del «postino», aveva negato
di avergli mai parlato di azioni contro Tobagi. La sentenza di secondo grado
del 7 ottobre del 1985 della Corte d’Assise d’Appello di Milano, di tutto
questo si occupò, facendo giustizia di ogni ipotesi fantasiosa, negando ogni
possibile mistero sulla tragica fine di Tobagi, così come l’esistenza di
mandanti dell’omicidio e di notizie confidenziali che lo avessero
preannunciato. Alla stessa conclusione pervenne la Procura di Milano – che
già nel dicembre dell’83 aveva emesso due comunicati stampa per fare luce
sulla vicenda – in altra inchiesta parallela nata proprio dalle false
«rivelazioni» sulle confidenze del “postino” su un piano per uccidere
Tobagi.
La conferenza stampa
Le vicende descritte furono riprese ed amplificate da un giornalista che
intervistò per il periodico «Gente», nel 2004, il brigadiere «Ciondolo»,
sostenendo la tesi della superficialità ed inerzia dei carabinieri, così
come ha fatto ancora due settimane fa – in una conferenza stampa – con il
supporto di un giudice che non si è certo occupato dell’omicidio Tobagi,
parlando di nuovo della citata annotazione e di documenti già noti e già
esaminati dai giudici, quali fonti dello «scoop», mentre, in realtà, essi
dicono quanto sin qui descritto e non altro. A seguito dell’intervista del
2004, il giornalista e il brigadiere vennero peraltro condannati dal
Tribunale di Monza (rispettivamente nel 2007 e nel 2008) per diffamazione
nei confronti degli ufficiali dei carabinieri da loro accusati di omissioni
ed inerzia. La due condanne vennero confermate nel 2009 dalla Corte
d’Appello di Milano e poi dalla Cassazione. Sono dunque definitive e dalle
sentenze emergono anche le ragioni di “disaccordo” tra il brigadiere –
trasferito ad altri compiti meno prestigiosi e poi dimessosi dall’Arma – ed
i suoi superiori. Ora, il giornalista attende la decisione della Corte
Europea dei Diritti dell’Uomo, cui ha fatto ricorso avverso la sua condanna,
mentre commentatori vari (compreso il Presidente della Federazione Nazionale
della Stampa) invocano a suo sostegno la tutela del diritto di cronaca e di
critica. Senonché qui si discute di altro, cioè della falsità o meno di
certe affermazioni posto che i diritti in questione presuppongono la verità
dei fatti da cui traggono spunto, verità negata dalla Corte d’Appello di
Milano che, condannando il giornalista, gli attribuì «evidente volontà di
comunicare fatti e circostanze scandalistici come l’unica verità senza dare
conto..di altra verità accertata giudizialmente in via definitiva, che pure
era a sua conoscenza».
Ma gli italici cultori della dietrologia, capaci di
individuare nessi persino tra il sequestro di documenti delle Br nel covo di
via Monte Nevoso a Milano, l’omicidio Pecorelli e l’omicidio dalla Chiesa,
non saranno mai disposti ad accettare verità troppo lineari, forse per
qualcuno banali, che però rendono onore al ricordo della statura
professionale ed umana di vittime del terrorismo come Walter Tobagi ed Aldo
Moro. A noi piace invece ricordare un motto che i giornalisti inglesi usano
per stigmatizzare quei loro colleghi che rifiutano di accertare/accettare il
reale andamento dei fatti pur di non indebolire le lo¬ro fantasiose ipotesi:
«Non permettere ai fatti di rovinare una bella storia!».
27 gennaio 2018
nomadina95
Questa notizia rattrista e indigna profondamente. I fantasmi non vanno mai via e si ripresentano sotto nuovi sciacallaggi. Bisogna ricordare alle nuove leve di un certo giornalismo d’assalto la vicenda del maresciallo Incandela, colui che pretendeva di imporre le sue strabilianti verità circa il pentimento di Patrizio Peci, presentandosi come braccio destro del generale dalla Chiesa, millantava storie che non stavano nè in cielo nè in terra.
Un caro saluto, Nomadina