Quando l’ingiustizia brucia: quel che abbiamo dimenticato del processo Andreotti. Caselli e Lo Forte raccontano

Del processo Andreotti sappiamo tutto. Chi ha voluto. Chi non ha voluto continua a non saperne niente, e a parlarne lo stesso. Poi c’è chi sa tutto ma ignora quel che non piace alla sua coscienza e ai suoi interessi. In fondo, e senza intenzione, quell’evento giudiziario si è trasformato in un processo all’intera società italiana. La rimozione, la legge che non è uguale per tutti, la pretesa di impunità, la stessa giustizia ansimante, tentennante se arrivare fino in fondo. Perché altrimenti l’intera società italiana avrebbe dovuto guardarsi allo specchio. Lei, la sua storia, il suo potere politico, il servo encomio di giornali, tivù e burocrazie. E invece ne venne fuori il codardo oltraggio. Non verso l’imputato. Ma verso i giudici che lo accusavano.
“La verità sul processo Andreotti”, il libro di Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte appena uscito per Laterza, non dice cose nuove a chi seguì con attenzione quelle vicende. Anche se mette a disposizione di chi non c’era un materiale fondamentale. Il suo grande pregio sta altrove. Partiamo dagli autori, anzitutto. Caselli (foto) è il giudice che giunse a Palermo da Torino, offrendosi volontario alla guida della Procura più a rischio d’Italia dopo le stragi del 1992, Falcone e Borsellino sullo sfondo, quegli attentati di guerra come monito terribile. Lo Forte è prima sostituto procuratore, poi aggiunto di Caselli, direttamente impegnato nel processo nella veste di pubblico ministero.

Il loro racconto è dunque una testimonianza che arriva da lontano, passa per il primo grado, quando la condanna si affaccia nella mente della corte ma diventa assoluzione nella penna, passa per il secondo grado con la condanna che resta nella mente per diventare prescrizione nella penna, complici le chirurgie del tempo, e giunge alla sentenza della Cassazione che conferma l’appello. Prescrizione fino al 1980, perché non c’era ancora il reato di associazione mafiosa, e assoluzione per gli anni successivi. Con montagne di accuse messe nero su bianco, nella sentenza finale, non nel rinvio a giudizio, da fare impallidire un intero sistema. Ma i due sono testimoni anche di ciò che successe fuori dal processo. E di quel che accadde dopo. Ricordano bene dove e quando si scatenò il codardo oltraggio. Feroce, sistematico, spesso senza confini morali. Di quando scoprirono con stupore ma senza paura di essere precipitati nel regno dell’ingiuria e della menzogna. Loro due insieme, ma più di tutti il totem da abbattere, perché anche il potere ha le sue pubbliche pedagogie: Gian Carlo Caselli.

Caselli accusato della morte di padre Puglisi, Caselli accusato di avere spinto al suicidio il giudice Lombardini, Caselli che non deve diventare procuratore nazionale antimafia, e le folli architetture legislative per impedirglielo, fino alla legge contra personam. Mentre nel regno dell’ingiuria si salmodiava a larghi cori sull’innocenza del prescritto, che ancora nel 2006 qualcuno ebbe l’idea di proporre alla presidenza del Senato.
Ecco, il pregio del libro, almeno per chi ha vissuto quell’epoca, è di restituirci il senso dell’ingiustizia che venne subita dai due autori in nome della giustizia che avevano cercato di dare alle vittime e alla storia del Paese. Di più. Il pregio è il bruciore di quella ingiustizia che scorre, come un ospite imprevisto, nelle parole, nel fraseggio, negli incisi e nelle parentesi del racconto. Lì sta la testimonianza più alta, per lo storico, per il sociologo, per chi vuol capire la fibra più intima della nazione. La memoria di quanto si è subito e che forse non abbiamo saputo risarcire. Quel che si capisce leggendo questo libro denso e breve (poco più di cento pagine) è che non sono bastati gli applausi dell’Italia antimafiosa per annullare la memoria dei prezzi pagati e soprattutto delle ferite morali. Ma anche che nonostante questo i due autori non si sono mai tirati indietro, anzi. Pedagogia contro pedagogia.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 27.2.18)

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