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Quel matrimonio che s’aveva da fare. Con la magia di due padri e di Bob Dylan….
Questa è una piccola grande storia, un inno alle cose minute della vita. Che cosa c’è, in fondo, di più normale di un matrimonio? A una certa età poi sembra di conoscerne a memoria riti e atmosfere, in tutte le varianti. E invece capita che la normalità interroghi, insegni emozioni grandi. Diremo qui solo i nomi degli sposi. Lui Matteo, lei Elena. Tutti e due fra i trentacinque e i quarant’anni. Diremo anche che il matrimonio si è celebrato in un paese ligure in un pomeriggio di sole. Tra amici felici e fortunatamente poco chiassosi, in mezzo ai quali sgattaiolava un bimbo con cravattino, ciuffo e sandali che sembrava uscito dal “Nuovo cinema Paradiso”. Aggiungeremo che in chiesa molti hanno partecipato ai canti seguendo con voci e battiti di mani il gruppo dei ragazzi alla chitarra, per generosità più che per abitudine di fede. Salvo pochissime eccezioni gli adulti non sfoderavano abbigliamenti da ottava meraviglia. Era tutto dolce e misurato, a testimonianza che è possibile sposarsi con piacevolezza e senza sfarzo, che il matrimonio non è necessariamente destinato a fare da arco di trionfo per invitati dalla psiche incerta. Lo dicevano la chiesetta, i declivi, il mare azzurro e riflessivo, la calma cortese dello stabilimento balneare deputato ai festeggiamenti.
Solo chi conosceva almeno una delle due vite che si incontravano poteva però andare oltre la scenografia riposante, che altrimenti non verrebbe qui raccontata. E infatti a un certo punto il padre dello sposo portò in dono il regalo più grande. Amante della musica country e buon chitarrista fin dall’adolescenza, comparve a sorpresa con la chitarra a tracolla. Pensai subito: ora fa Bob Dylan, da cinquant’anni conoscendone la passione per il poeta della mia generazione. Fu così. Iniziò proprio un pezzo di Dylan. Morbido e lento. Mentre cantava, pochissimi minuti, risentii la sua telefonata di un lontano mattino di tanti anni fa. La voce che non usciva e poi si rompeva. Finché riuscì a dirmelo. “Matteo ha una neoplasia alla gamba”. Capii che era un fatto grave ma non cosa fosse. Neoplasia era linguaggio medico, quello suo di ogni giorno. Me lo spiegò. Matteo giocava benissimo a pallone, aveva un istinto naturale del gol. Doveva operarsi, non avrebbe più potuto giocare. E questa davanti al calvario che si preparava per il figlio liceale era certo la preoccupazione minore. Il ragazzo fu seguito con tacita apprensione, sempre più amato, batté con fatica e coraggio quella parola assurda e traditrice, studiò, diventò un creativo, come si dice. Rividi tutto questo, e le pene della madre in un ospedale in trasferta, e le infinite trepidazioni, mentre il padre cantava la ballata di Dylan senza le parole originali. Poiché le parole, fu subito chiaro, erano sue, composte per il figlio, per il suo matrimonio. Disse in modo certo più poetico di quanto lo ricordi io, che si sentiva pronto ad affrontare il buio, ora che la felicità aveva preso, per il ragazzo diventato uomo, la forma fisica di una giovane donna. Soffiò la serenità del proprio tramonto nel lungo imbrunire ligure, lo sguardo spesso a terra, come a consegnarla senza dirlo: la poesia ma anche l’essenza della vita. Quando ebbe finito capii la grandezza della scena a cui avevo assistito.
Passò mezz’ora e potei assistere incredibilmente a una seconda scena. Perché poi fu la volta del padre della sposa, medico anche lui. Parlò direttamente a lei, e capii quel che avevo prima solo intuito. C’era un vissuto difficile e doloroso anche nella sua, di storia. Lui e la figlia, lasciati dalla stessa donna molto presto, una banale operazione finita in tragedia. La bambina che scopre la mamma senza vita. Il farsi compagnia e attraversare insieme un percorso che è anche lontananze, impegni, silenzi. Guardavo al microfono quel signore mai prima visto, e sentivo la fatica infinita delle sue parole, perché domare il pianto è opera difficile per chiunque, specie se le emozioni salgono dalla gola, se gioia e dolore rimbalzano. Ci riusciva a stento, miracolosamente, mentre tutte in fila le amiche di lei brillavano di occhi inumiditi. Quando il signore sconosciuto ebbe finito lo abbracciai d’istinto; stretto, come fosse un amico. Realizzai quale valore immenso avesse quella doppia gioia. Dopo si parlò anche di governi e di riforme, di carcere e di mafia, di politica e di università. Ma tutto apparve piccolo, minuto, pur nella sua incontestabile importanza. Nel blu che aveva sconfitto l’indaco ogni cosa ruotava. La terra, la luna, e pure le nostre tavole dei valori.
(scritto su Il Fatto Quotidiano del 28.5.18)
Nando
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