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Polistena, il regno liberato di don Pino. Cronache dall’Italia dei “don”
I primi freddi portano a Polistena il profumo dei camini nell’aria leggera. Le case in perenne rifacimento si alternano a quelle mai rifatte. Salite e discese si inseguono tra marciapiedi capricciosi. Don Pino saluta tutti e da tutti viene salutato. La deferenza verso chi fa di mestiere l’ambasciatore di Dio in quel fazzoletto di terra, la cordialità verso chi, sempre di mestiere, aiuta il prossimo a fronteggiare i problemi terreni.
E Polistena, 10mila abitanti in provincia di Reggio Calabria, di problemi terreni ne ha molti. Tra tutti, quello che mozza il respiro alla provincia intera, la ‘ndrangheta. Don Pino Demasi ne parla con naturalezza, non drammatizza, il racconto si mescola anzi in lui con l’orgoglio per quel che nel suo paese sta sorgendo e che promette di cambiarlo, questione di tempo. Pie donne che lo salutano in parrocchia, giovani dell’antimafia che vanno a cercarlo, il barista che vanta la propria pasticceria e mostra di gradire molto l’impegno civile del parroco.
Finché si arriva al luogo delle meraviglie. Una grande piazza dedicata a Peppino Valarioti, il giovane militante comunista ucciso dai mafiosi di Rosarno, fiancheggiata di lato da una struttura imponente. Dà subito l’aria di un grande luogo di amicizia, ragazzi che ci giocano dentro, poster di Libera, simboli di Emergency, annunci di dibattiti. Proprio su quella piazza e proprio davanti a quelle murature il 17 settembre del ’91 accadde l’inferno. Dalla piana di Gioia Tauro arrivarono in sedici armati, divisi per quattro su quattro auto, e tentarono lo sterminio del clan Versace, il cui “Bar 2001” dominava da un angolo il paese. Due dei fratelli restarono uccisi, un terzo si salvò fingendosi morto. Spuntò dalla strage un nuovo locale, “au Petit Bijou”, delicata insegna per nascondere i traffici negli scantinati. L’immobile ospitava anche una grande sala matrimoni. La festa di nozze bisognava celebrarla lì, e se a sposarsi erano “loro”, ecco la fila in strada per omaggiare le famiglie con buste di denaro. “Vede?”, indica don Pino, “tutta la struttura adesso ha grandi vetri trasparenti. Li abbiamo voluti così perché chiunque possa guardare che cosa c’è dentro. Ma prima erano tutti a specchio, perché nessuno dalla strada vedesse nulla. Era un modo per proteggersi dai nemici, fossero i carabinieri o i clan rivali”. Il potere mafioso schiaffato in faccia ai passanti. Un potere anche suadente, però. Don Pino ricorda bene quando vent’anni fa centinaia di ragazzi dell’antimafia si radunarono sulla piazza per “estate ragazzi”. A un certo punto, racconta, comparve tra i giovani il cameriere del bar: offriva gratuitamente la colazione per conto del boss. Il prete fece un segno e il dono di pace fu rifiutato.
Poi un giorno, perché questi giorni per fortuna ogni tanto arrivano, l’intero complesso venne confiscato. E la fondazione “Con il Sud” finanziò il progetto della sua riconversione. E le tante funzioni del palazzo furono cambiate. Una per una. Don Pino gira come un virgilio soddisfatto, incedendo e mostrando e salutando i presenti. “Questa è la sala giochi, questa è la biblioteca, qui si vendono i beni delle cooperative di Libera, qui loro si fanno da mangiare”, e così l’ospite va scoprendo angoli cucina ovunque. C’è anche un poliambulatorio. E questa è davvero una sorpresa. Lo gestiscono volontari di Emergency, “ci ha aiutato Gino Strada, a cui avevo chiesto una mano”. Medici, infermieri, assistenti, diversi sono di colore. La Calabria mostra una volta di più la sua anima accogliente. “Vengono migranti, anche dalle tendopoli, “noi li aiutiamo, anche se possiamo dare una assistenza limitata, pronto soccorso e basta”, perché se fanno ginecologia poi scattano le rivalità di chi si fa pagare. Si respira gentilezza a ogni piano, in ogni stanza, anche nella parte di immobile dedicata a ostello, ci vengono gli scout e non solo loro. Qualche letto a castello è stato regalato da un ostello milanese, è Giuseppe che li mostra, e ti rendi conto che quando il bene si organizza sa tenere testa al male. Bene, male.
Parole che don Pino non pronuncia ma che si affacciano alla mente del visitatore. In una sala (questa senza cucina…) c’è un dibattito. Arrivano a decine e decine: cittadini, insegnanti, gente delle associazioni, fedeli del “don”, studenti. Sembra che la società civile abiti da un secolo in quel palazzo che fu un giorno arroganza e delitto. Dopo la morte di don Gallo a Genova questo giornale titolò ammirato in prima pagina “L’Italia dei don”. Ecco, quel titolo va a pennello anche a Polistena.
(scritto su Il Fatto Quotidiano il 12.11.18)
Nando
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