Qui Tiriolo, Calabria. La signora della bandiera rossa

“Ma noi come la pensiamo?”. L’interrogativo è affidato al telefono alle sette e mezzo di ogni mattino, o quasi. E in quel “noi” sta un intero romanzo politico. Grande e doloroso. Quello della sinistra in cerca d’autore. Perché a usare il pronome magico è una anziana signora da tempo oltre gli ottanta, che la vicenda della sinistra italiana l’ha vissuta tutta da un paese calabrese. Da un grappolo di case in cima a un pizzo, la meraviglia di vedere il Tirreno da un lato e lo Ionio dall’altro (foto). Si chiama Tiriolo, provincia di Catanzaro, ed è speciale sia per la posizione geografica sia per essere sempre stato una delle roccaforti della sinistra calabrese, un sindaco socialista già nel 1913 e gli scioperi alla rovescia per rimboscare la collina. La signora, di nome Maria Puccio, quella storia la conosce per essere stata la sua vita. La madre, anche lei Maria, fu candidata alle prime libere elezioni repubblicane nel 1946 nella lista comunista. “C’erano i democristiani, noi (noi…ndr) e i repubblicani. Nella nostra lista le donne erano tre. Ma fu un’idea di mio padre, quella di candidarla, lei me lo disse sempre”. Poi il marito, Giuseppe Forgione, è stato vicesindaco socialista del paese.
Pino, come lo chiamavano i compagni, se ne è andato tanto tempo fa, nel ’91. Faceva il commerciante, vendeva prodotti per l’edilizia, ma anche prodotti per le imprese di onoranze funebri, a cui procurava le bare (“mio figlio ci giocava in mezzo”, ride…). E insieme faceva il rappresentante del fernet branca per Calabria e Lucania, “allora la Basilicata si chiamava così”. Un personaggio amato, che cercava di aiutare tutti, anche i giovani che emigravano. “A ogni elezione lui si assicurava che io votassi giusto, e io sempre a dirgli che votavo socialista. E invece in segreto votavo comunista, come faceva mio padre. Io i socialisti non li ho mai votati”. Poi ci si è messo il figlio, Francesco, prima giovane funzionario del Pdup, poi Pci e infine Rifondazione Comunista, nelle cui file è entrato in parlamento diventando anche presidente della commissione antimafia. Sigle del passato, anche se il cuore ha mantenuto lo stesso colore.

Perciò quel “noi” ha perfino qualcosa di struggente, nelle telefonate scambiate con il figlio dopo il giornale radio del mattino. “Ma noi stiamo con Mattarella, vero? Ma perché Nichi (Vendola) ha detto così, noi che ne pensiamo?”. Casalinga, quinta elementare, la signora segue la politica come nemmeno un professionista. Autodidatta, non sbaglia un congiuntivo, e non capisci se il merito vada alla scuola o alla politica di una volta, o a tutt’e due. Lei in ogni caso il problema dell’identità se l’è risolto a modo suo. Sul balcone di casa in una data simbolica, il primo maggio. Quel giorno da decenni sventola dalla ringhiera verso la strada una bandiera rossa. Prima con un simbolo, quello del Pci, poi con un altro meno glorioso, quello di Rifondazione. Qualche anno fa la signora si è decisa e ha ordinato una federa di due metri per un metro e mezzo. Color rosso, senza simboli. E ne ha fatto una bandiera. Che il 30 aprile viene tolta dal cassetto, il primo maggio garrisce sui passanti, e il 2 maggio viene dismessa, lavata e infine riposta amorevolmente nel cassetto.

In piena vigilia di Natale la signora Maria se ne sta in cucina con una vestaglia viola. Non esce di casa da dieci anni, spiega affabile che ha perso in parte il dono della vista. Riceve donne di ogni condizione in visita, perché è davvero donna di popolo. E’ cuoca eccelsa, pura gastronomia contadina. Racconta la ricetta favolosa della sua pasta ripiena: rigatoni, sugo di maiale, polpettine fritte, provola, uovo sodo, soppressata, a tre strati. In qualsiasi posto sarebbe un piatto unico da schiantare. Per lei è il primo che precede il cosciotto di agnello ripieno, iniettato di auricchio, soppressata, aglio e origano. Ne ha offerto a Lucio Magri e Luciana Castellina, a Luca Cafiero e Giacomo Mancini, ad Alessandro Natta e Armando Cossutta, perché la storia della sinistra è passata anche dalla sua cucina. E’ solo disperata di non potere più fare con le sue mani i “cudurieddi”, una speciale pasta fritta salata, anche se tante sono le donne che gliene portano in dono (“ci stiamo riprendendo quel che abbiamo dato”, scherza). L’hanno chiamata per decenni “Maria d’a fresa”, perché suo padre andava a un frantoio a farsi mettere l’olio sulle frese per insaporirle. La fresa e il Pci, la sua identità. Ora è qui a mescolare mandorle e zucchero, e a chiedere al figlio, di passaggio da casa, “e noi che diciamo?”.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 24.12.18)

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