Thomas, che ha il Messico nel cuore

L’aveva giurato un pomeriggio di alcuni anni fa. “Voglio passare la vita a occuparmi di queste cose”. Aveva appena ascoltato a un seminario all’Università di Milano Yolanda Moran, madre di un desaparecido messicano. Solenne, senza lacrime, la foto del figlio sul petto, Yolanda aveva raccontato la sua storia di donna in cerca di giustizia, mescolata a quella di migliaia e migliaia di familiari, si calcola siano ormai 35mila i desaparecidos messicani. Dietro, teneva le foto dei cinque nipoti con la stessa domanda: donde està mi papà? Raccontò che ai familiari tocca perfino di farsi le indagini, raccontò la corruzione, i silenzi, l’utilità di trovare ascolto in un’università italiana. Si era formato un clima da brivido, irreale, quanto reale era stato il mondo disvelato a tutti. Una giovane avvocatessa calabrese andò verso la donna, la abbracciò per lunghissimi minuti. Thomas era lì accanto, era venuto a sentirla perché sul Messico ci aveva fatto la tesi di laurea. Si commosse, capì l’infamia del mondo, e disse sottovoce quella frase.

Ed è stato di parola. Da allora il Messico è la sua vita. Fatta di libri, di viaggi, di solidarietà, di conoscenze, di impegno civile. Vuole aiutare quell’umanità dolente e abbandonata. Perché per l’opinione pubblica, nessuno si illuda, il Messico è aztechi, è Acapulco e per i più impegnati è il Chiapas. Per lui no. Per questo volò un paio d’anni fa a Città del Messico per il 10 di maggio, festa della mamma, simbolicamente assunto a giorno della domanda di giustizia, o anche solo di un corpo da seppellire. Ora è appena tornato da un soggiorno di quattro mesi. Dal piccolo comune di Bussero, Naviglio Martesana, se ne è andato oltre Atlantico, nel Coahuila, proprio lo Stato di Yolanda, a Nord, uno dei più pericolosi, a fare un lungo lavoro di interviste ai familiari, raccogliere le loro esperienze, osservare le loro associazioni, quanti sono, di che discutono, perché hanno scelto di non avere paura nei luoghi del terrore.
La prima volta che provò il dottorato di ricerca lo bocciarono. Quando espose il suo progetto gli dissero severi che quelli dei familiari messicani sono movimenti solo “espressivi”. Per dire: fanno le fotografie con i cartelli e basta. Una fesseria: ora l’ha pure visto, ottengono leggi, provvedimenti, scuotono coscienze. Per fortuna, diversamente da Regeni, viene consigliato. Si è mosso solo di giorno, solo su certe autostrade, non sui pullman, che possono essere fermati dai narcos. Sulle lunghe distanze gli hanno suggerito l’aereo. Ha dormito in case altrui. Ha cercato sempre di accompagnarsi a qualcuno. Ha avuto l’appoggio dell’Accademia Interamericana per i diritti umani dell’Università Autonoma del Coahuila, e del Centro Diocesano per i diritti umani Fray Juan de Larios. Ha partecipato a tutti i coordinamenti di FUUNDEC-M (associazioni dei familiari), a manifestazioni, riunioni private del collettivo, riunioni con il governatore del Coahuila, riunioni con altri funzionari statali e federali, revisioni dei casi di sparizione dei familiari del collettivo, con polizie statali e federali, pubblici ministeri, personale forense, personale della Commissione Nazionale per i diritti umani; perfino a una esumazione a cui i collettivi del Coahuila possono partecipare grazie ad una legge da loro voluta.

Anche se “gringo”, si è fatto benvolere. Ha perfino potuto partecipare alla ricognizione di fosse comuni. Ha riempito un lungo quaderno di appunti e 40 pagine word. Racconta di corpi smembrati trovati per le strade, dell’esiguità numerica di familiari che si battono come leoni, cifre infime rispetto all’umanità colpita. Racconta le timide speranze in Obrador, il nuovo presidente. E pensa a come tornare lì, sembra a volte che non pensi ad altro. Ricorda Lulù, madre di Brandon Esteban Acosta Herrera, sparito a 8 anni con il padre Esteban Acosta Rodríguez e i suoi due zii Gerardo e Gualberto Acosta Rodríguez, il 29 agosto del 2009, a Ramos Arizpe, Coahuila. Il marito di Lulù era a capo delle guardie carcerarie del carcere di Saltillo durante l’epoca de Los Zetas, e cercava di svolgere onestamente il suo lavoro. Nessuno è mai più stato trovato.
I dottorati di ricerca vengono a volte usati per affinare le capacità di gareggiare in accademia, ripiegati su biblioteche senz’anima e con la saccenza tipica dei giovani studiosi. Thomas Aureliani lo ha messo al servizio degli altri. Lo aveva ben detto che del Messico stuprato voleva occuparsene “per tutta la vita”. Chissà se manterrà questo proposito. Ma è bello pensare che ci riesca.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 7.1.18)

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