Paolo Pagliai, pacifista dei due mondi

Un misto di Dalla, Guccini e Pavarotti. Il cocktail non è casuale. Perché Paolo Pagliai, rettore de la Alta Escuela para la Justicia di Città del Messico, racchiude in sé una formidabile concentrazione di storia italiana degli anni ottanta e novanta. Nato a Firenze nel fatidico 1968, ha vissuto con avidità i decenni della adolescenza e della gioventù, tutto consumando e metabolizzando di quel periodo: musica, cinema, fumetto, calcio. Così che nelle passeggiate nel grande parco di Coyoacan, mentre parla dei grandi problemi messicani o italiani, riesce a sintetizzarli con fulminei, esattissimi riferimenti a parole di canzoni o a scene di film ormai sepolti nella mente del suo interlocutore.

Ma di quegli anni Pagliai ha vissuto anche l’impegno pubblico. Della sua Firenze ha frequentato, e la richiama spesso come biglietto da visita, la grande esperienza dei preti del dissenso all’Isolotto di don Enzo Mazzi, dove trovò in eredità pure l’insegnamento di don Milani e l’utopia di pace di La Pira. Nulla di strano quindi, se giunto venti anni fa in Messico per amore, ha progressivamente offerto alle università locali una disciplina speciale, la costruzione della pace. Formatosi nel dottorato alla celebre Unam, l’Universidad nacional  autònoma de México, la più grande e antica università latino-americana, è andato poi a portare la sua passione civile alla Universidad del Claustro de Sor Juana di cui è diventato preside nelle “Humanidades”. “Insegnare la pace in Messico….Sembra una battuta. Ti guardano spesso come se fossi un dispensatore di chiacchiere in un paese che ha le cifre di morti e di desaparecidos che sappiamo. Insomma, uno che insegna il niente”. Sotto gli occhialini sottili passa un attimo di commozione. Un palo sulla pubblica piazza porta il viso di una donna di 58 anni, un piccolo manifestino ne annuncia la scomparsa. Le cronache del giorno raccontano di tre ragazze sparite. Gli si incrina la voce quando ricorda di avere visto le sue allieve un giorno in manifestazione che gridavano “porqué, porqué, porqué nos asesinan, si somos la esperanza de America Latina?”.

Eppure questo italiano venuto a far del bene dall’altra parte dell’Atlantico non si dà per vinto. Mentre le cifre della violenza impazziscono verso l’alto, lui cerca di dare uno sbocco all’idea di mondo che si è fatto in Italia: l’Isolotto fiorentino ma anche l’ultima rivolta collettiva a cui ha partecipato nel suo paese, le stragi palermitane, i due giudici diventati simbolo per la sua generazione, tanto da chiamare Libero il primo figlio avuto da Teresa in onore di Libero Grassi. Una miscela culturale fortissima, che traspira da ogni parola, e che lo ha portato a cercare dentro la società messicana il modo di non tacere, di non assuefarsi. “Troppe volte l’accademia si ripiega su se stessa. Una volta che mi misi in ferie per andare a Guadalajara dov’erano Caselli e Ingroia, nella mia università si preoccuparono che mi esponessi troppo. Per mio bene, naturalmente, ma la situazione messicana aveva bisogno di un cambio di passo”.
Così Pagliai maturò la grande scelta. Fondare lui stesso una università. Il Messico ne ha in quantità industriali, d’altronde. Con l’aiuto di un ricco avvocato sensibile ai diritti umani, Juan Antonio Araujo, è nata così l’Alta Escuela para la Justicia, diventata rapidamente un punto di riferimento, sostenuta dalle Nazioni Unite di Vienna, e i cui primi passi “vennero anche aiutati da don Ciotti e Libera”. Un istituto che sembrerebbe malinconicamente destinato a promuovere i suoi progetti di pace e di giustizia “in partibus infidelium”.

Pagliai però non lo crede. “Non mi sogno certo di negare quel che accade in Messico. E nemmeno mi rifiuto di vedere questa grande marea di corruzione che sembra sommergere ogni idea generosa, ogni battaglia di giustizia. Ma il Messico è un paese meraviglioso, è pieno di contraddizioni, ha gente bellissima, trovi sempre persone con cui allearti. Questa è la lezione che vorrei trasmettere a tutti: non si è mai soli, se appena si alza lo sguardo. E poi questo nuovo governo sembra volere fare sul serio. Obrador ha dichiarato guerra alla corruzione nei suoi programmi, e con Amlo, la sua nuova lista, ha stravinto in tutti gli stati meno uno”.
Gli occhialini di Paolo si muovono su è giù, perfino la barba sembra vibrare all’idea che sia giunto il momento della svolta. Le autorità locali lo ascoltano, lo invitano, lo ricevono. Mentre io penso che molti dei famosi “italiani all’estero” potrebbero tranquillamente prendere in mano il paese da cui sono partiti.

(scritto su Il Fatto Quotidiano dell’11.2.19)

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