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Quel prete che affonda la politica. Con la spada di Giuditta
Il prete siede al lunghissimo tavolo in basso, in fondo alla sala ad anfiteatro. E’ solo. Nessun maxischermo ne rimanda l’immagine, così che i più lontani non vedono gli occhi inquieti. Davanti, ad ascoltarlo, ha 170-180 persone di ogni età, giunte da ogni regione d’Italia. Week end di luglio lontani dal mare. Ma anche dalla città, Roma, raggiungibile in treno o con 45 minuti d’auto. La “conference room”, come è stata ribattezzata la sala, sta in un complesso denominato “Il Carmelo”, vicino a Ciampino, gestito dall’ordine dei carmelitani dell’Antica Osservanza. Isolato, in un deliquio di colori arrossati e di canti di uccelli.
Il prete parla parole di preoccupazione, riflette sul mondo che sta fuori senza dargli confini. Sostiene anzi che a erigere confini c’è il rischio di non capire. I muri attentano all’intelligenza. Una volta l’Europa ne aveva uno, ora ne ha diciassette. E le minacce che si stagliano all’orizzonte vanno capite, perché da qualunque angolazione le si guardi, sono grandi davvero: l’esaurimento della democrazia, la proliferazione delle guerre, una catastrofe ecologica. Messe in fila così appaiono predizioni messianiche. Ma il prete le prende una per una, le spiega, ne agguanta e strofina i risvolti sociali e umanitari. Tutto appare sensato nel discorso che si fa ragionamento. Sul terzo rischio evoca la ormai celebre enciclica di papa Francesco, la “Laudato sii”. E invita ad accompagnare, “senza usarli”, gli adolescenti che hanno scelto di battersi per la salvezza del pianeta.
Alla sua sinistra sta una lunga croce incisa sulla parete di legno, alla sua destra un rustico dipinto di Madonna con Bambino. In mezzo lui, con quella sequenza di interrogativi ma anche di esortazioni rivolte alla platea: a impegnarsi di più, “proprio voi che già fate tanto”. Lo preoccupa la povertà, il numero dei bambini italiani che vivono in povertà assoluta, e in particolare la povertà educativa, con i suoi sbalzi spaventosi tra i territori. Sui territori bisogna starci, ammonisce. Perché può cambiare molto, se lo si fa. Racconta come è cambiata Palermo, anche per questo; città dove la mafia c’è ancora ma non governa più. Racconta del parco giochi che sorgerà a Roma su una proprietà sottratta ai Casamonica. Racconta della battaglia in corso sull’uso del territorio a Ostia. Tratteggia i miglioramenti possibili, ogni volta nati da salti di responsabilità, dalla scelta di non arretrare per sempre. Ed è ora, dice, di ricominciare ad affrontare la questione della droga. Si torna a morirne e i giovani sono fragili (è l’aggettivo che usa di più), indifesi. “Davvero è una questione che può essere normalizzata?”, domanda indignato.
Il prete rifiuta “il paradigma tecnocratico” (di nuovo Francesco), disegna una rivoluzione culturale che rimetta al centro le persone, un nuovo umanesimo europeo che lavi il continente della disumanità che gli si è appiccicata sulla pelle. Spiega che i deliri di onnipotenza trionfano negli esseri senza cultura e che il populismo ha sempre sfruttato il popolo. Che solo l’ammissione della propria finitezza può rendere vivi, che una umanità che si creda immortale è fatta di morti viventi. Ed è proprio qui che sfodera la parabola di Giuditta, della donna che senza paura difende Israele con la spada (nel quadro, con la testa di Oloferne). Ne ha in mente diverse, di giuditte. Da un po’ di tempo pensa che la forza rigenerata dell’umanità possa venir da loro. E le vicende attuali lo vanno rafforzando in questa idea. Carola come Rackete è il primo nome, la capitana vera che non si è sottratta (lei) al processo che la attendeva per avere agito secondo convinzione. Alessandra come Vella è il secondo nome, quello della magistrata che ha riconosciuto i cosiddetti diritti del mare. Altri nomi gli premono alla bocca, ma non li dice. Sono quelli delle donne di ‘ndrangheta che sotto protezione rompono antiche fedeltà di granito avvelenato, una dopo l’altra.
Come rinunciare in questo quadro a un accenno a Greta adolescente? Che arriva , infatti, insieme all’auspicio che avvenga una follia, che anche la natura diventi soggetto giuridico, così da potersi difendere: se stessa, e noi con lei, perché “non possiamo più separare società e ambiente”.
Parole preoccupate, parole di speranza, in una tensione continua tra mente e cuore che sorprende chi sia ormai chino sul chiassoso film della politica. Voi mi chiederete a questo punto come si chiami questo prete che dice cose ispirate lontano dal mondo perché vadano per il mondo. Ma sciuperei tutto. Vi dirò solo il nome proprio, un nome assai comune: Luigi.
(scritto su Il Fatto Quotidiano dell’8.7.2019)
Nando
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