Due romagnole a Friburgo. Tra fuga dei cervelli e nostalgia di Arbore

Prendete madre e figlia romagnole e mettetele a Friburgo. Con ruoli diversi, naturalmente. L’effetto di insieme sarà garantito comunque. Clara Rigoni è una brillante ricercatrice di Cesena. Ha girato il mondo sin da quando partì di casa diciassettenne per imparare lo spagnolo e scelse il Costarica “perché era un paese senza esercito”. Poi, dopo il master a Venezia in diritti umani, una università dopo l’altra, Heidelberg e New York, Utrecht e Strasburgo, fino a Friburgo: al Max Planck Institute, il prestigioso centro di ricerca tedesco, e docente in università di un grappolo di materie, dall’antropologia giuridica al diritto penale internazionale. Parla quattro lingue, facendo lezione a braccio in un perfetto inglese, fantasia e passione della sua terra, occhi azzurrissimi e soprattutto il rifiuto -almeno per ora- di tornare in Italia per una ragione che me l’ha messa sul podio delle affinità mentali: “Sa perché? Perché in Italia la gente si lamenta sempre, se piove o se c’è il sole, si vanta di lavorare tanto e si lagna di lavorare tanto, ed è sempre colpa degli altri. Ecco, io in un posto dove la gente non fa che lamentarsi non riuscirei a vivere”.

Basterebbe per volere raccontare di questa italiana trentenne in carriera. Senonché…senonché c’è la mamma, Letizia Bagnoli, una signora che ha appena passato i sessanta e che è venuta a trovarla da Cesena perché il programma degli incontri la interessa. Anche se tutto è in inglese e lei non sa l’inglese. Il fatto è che, dopo essersi appartata in un angolo in fondo all’aula, il programma vero lo mette in scena lei, in romagnolo scoppiettante. Racconta di avere preso possesso dello spazioso monolocale della figlia e di essersi messa a stirarne i vestiti, perché la mamma è sempre la mamma, anche se la “bambina” fa la scienziata all’estero. Elogia la qualità dei suoi manicaretti, “altro che mangiare qui nei ristoranti che fanno sempre le stesse cose, se vuoi faccio io da mangiare per te e per i tuoi amici”. Anzi “porto un bel coniglio da scongelare e lo cucino io, ché qua il coniglio non si trova da nessuna parte”. Sembra la classica madre italiana, il piglio giovanile, una certa civettuola eleganza. Poi, siccome parlare le piace, viene fuori una cultura rara, conoscenze di letteratura spagnola, poeti, romanzieri, premi letterari. Spiega che si è occupata molto anche di politica. Che anche se per ragioni anagrafiche le è sfuggito il Sessantotto si è data molto da fare a suo tempo con i sessantottini di lei più grandi. Era di sinistra, Lotta continua precisa, ma pure amica di un repubblicano della sua terra, il senatore Gualtieri, che i più anziani ricordano come incorruttibile alfiere della questione morale in parlamento.

Una vita avventurosa, sempre da infermiera, parola che pronuncia con fierezza infinita. Volontaria in Libano a 19 anni, e poi due anni in Kurdistan da sposata. Passioni a gogo, crede negli oroscopi, sa tutto del celebre oroscopo dell’ “Internazionale”, spiega con naturalezza che gli uomini dell’Acquario sono inaffidabili. E in ogni caso lei, separata a quarant’anni, giura che “per quanto non ami l’ideologia femminista, sto sempre con le donne”. Le piace il buon vino, e insegue il posto al tavolino mentre davanti alla cattedrale svaniscono i resti della grande festa del vino durata una settimana, deplorando che qui manchi la frutta di Romagna, soprattutto le pesche della qualità “la bella di Cesena”. Mentre fa crocchio, e si sbizzarrisce nei commenti colti e salaci, o ricorda quando, in età maturissima, venne beccata dalla polizia a girare in motorino senza alcun documento, rivedo la celebre trasmissione di Arbore, metà anni ottanta, “Ma la notte no” (vedi foto storica).

Ripenso a quella stupenda accozzaglia di personaggi surreali a cui Arbore dava armonia durante la trasmissione. Ripenso a Ferrini, il personaggio comunista che “non capisco ma mi adeguo”. E le dico che ci sarebbe stata dentro perfettamente. L’idea la lusinga, anche perché -narra- Ferrini l’ha conosciuto benissimo, era proprio di Cesena. Fa acrobazie tra pezzi di vita, sei mesi in Indonesia, la passione per carciofi e funghi, “l’ha visto? qui danno i finferli piccoli, da noi sarebbe vietato”. Quando si va sull’aglio racconta con orgoglio professionale la sua deontologia di infermiera. “E io glielo dicevo sempre alle più giovani. Non mangiate cibo con aglio. Perché poi vi chinate sui pazienti e loro non possono lamentarsi. Ci vuole rispetto per loro”. Già, l’aglio e le infermiere. Non ci avevo mai pensato. Ma davvero Fellini non doveva inventarsi niente…

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 15.7.19)

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