L’antimafia globale in una vita sola. Storia di Claudio La Camera

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Uno spirito inquieto? Un missionario laico? Un combattente di tutte le buone cause? Magro, non alto, una barba sottile e ben curata, quattro lingue imparate girando per il mondo, una passione smisurata per quello che fa, Claudio La Camera l’avevo conosciuto anni fa a Reggio Calabria, poi l’avevo incontrato fugacemente a Berlino, e l’ho ritrovato ora a Città del Messico. Dove lavora per le Nazioni Unite, più precisamente per l’Unodc, l’agenzia con sede a Vienna deputata a combattere la droga e il crimine organizzato (in foto a sinistra, durante una manifestazione pubblica contro i narcos). Qui in Messico, una volta di più, costruisce progetti sul campo, dove lo spingono lo spirito di battaglia e una certa idiosincrasia per la teoria inoperosa e la vita d’ufficio. Un accordo tra il ministero della giustizia messicano e quello italiano per trasferire oltre oceano le nostre pratiche di reinserimento dei detenuti. Piani “integrali” di lotta alle estorsioni. Una strategia di sostegno alla causa immensa delle madri dei desaparecidos. La raccolta di testimonianze dirette e l’appoggio di progetti sociali nelle zone del diavolo, la Ciudad Juarez capitale mondiale del femminicidio, o lo stato di Guerrero, oggi in assoluto il più pericoloso dei trentadue della federazione messicana (“in un paio di casi ho rischiato molto”, ammette).

Vi sembra molto? troppo? Poco, rispetto a ciò che questo spirito avventuroso e combattivo ha fatto nella sua vita. Che non è mai stata sedentaria, fedele al principio che è “meglio essere poveri e vedere il mondo”. Il suo giro Claudio lo iniziò a diciassette anni, quando prese ad andare nei mesi estivi da Reggio Calabria in Francia a raccoglier frutta per mantenersi agli studi. Il salto di qualità giunse invece dopo la laurea a Catania in filosofia del diritto (“feci la tesi sulle leggi non scritte in “Antigone”). Partì per il Brasile con un prete del Don Orione conosciuto a Roma, José Carlos dos Santos, perché “nella vita ho sempre fatto le mie scelte seguendo le persone, non l’ambizione o il denaro”. Lì gli venne affidato il compito di costruire un Cottolengo vicino a Fortaleza. Ci riuscì grazie a un ricco italiano, barcamenandosi con successo tra amministratori analfabeti e latifondisti d’assalto. Poi una nuova missione in Brasile con i francescani, reparto cappuccini dell’Umbria. Totale, dieci anni di Amazzonia. A quel punto incominciò una girandola di mete lontanissime tra loro. L’Australia, un progetto di antropologia teatrale, e l’Africa. Un anno in Costa d’Avorio, ancora con religiosi. “Di quella esperienza ricordo un incarico di fiducia. Attraversare territori infiniti tra Costa d’Avorio e Togo per portare a Koroghò una busta con denaro a un gruppo di suore rimaste isolate. Quando arrivai le trovai sedute in tondo a parlare, in frigorifero non avevano letteralmente nulla da mangiare”.

Poi il ritorno in Italia. Naturalmente zone di frontiera. Ristrutturare la casa di Peppino Impastato a Cinisi, la catalogazione del materiale trovato tra quelle mura (con carteggi mai prima usciti), riaprire al pubblico la reggia confiscata a don Tano Badalamenti. “Misero musica ad alto volume sul marciapiede per boicottare l’evento. In quel clima feci una scelta di metodo: andare al sodo, realizzare cose buone, senza farmi impelagare nelle piccole rivalità delle associazioni antimafia, e avere come solo riferimento le istituzioni e il bisogno di memoria”. La memoria, appunto. Come con la creazione dell’allora “Museo della ‘ndrangheta” (oggi Osservatorio) a Reggio Calabria. La costruzione di un nuovo pezzo di società civile e una incredibile vicenda giudiziaria contro di lui inabissatasi nel nulla, ma che lo ha segnato molto. Poi la Germania, il lavoro in fondazioni impegnate nella prevenzione del razzismo. Fino alle Nazioni Unite. A Vienna e dal 2017 in Messico, con la scelta di dedicarsi ai luoghi di frontiera con gli Stati Uniti, quelli in cui si fa oggi, e non solo simbolicamente, la storia del mondo. Le ricerche nel Guerrero. Sognando di trasformare il modello italiano di lotta alla criminalità in un esempio per l’America Latina, nella giustizia come nella scuola.

Uno così lo fai raccontare per ore e ore, talmente grande è il mondo che si porta dentro. Finché il discorso cade sulla sua Calabria. E gli scappa la frase terribile di Corrado Alvaro: “ad andar via da questa terra ce l’hanno insegnato i nostri padri”.  L’occhio si perde, la voce anche, mentre sussurra “quella terra infelice”. Sentirlo dire in Messico da chi si misura con le tragedie del mondo, vi assicuro che mette una malinconia senza confini.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 26.8.19)

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