Antonio Iosa: quel “servo di Cossiga” per il quale rinunciai a Bruce

E’ stato l’unico in vita mia capace di farmi saltare un concerto di Bruce Springsteen. Proprio lo storico concerto di Bruce a San Siro del 1985, biglietto già preso. Andò così. Quando Antonio Iosa mi telefonò chiedendomi di partecipare al convegno sul pentitismo promosso dal circolo Perini, di cui era lo storico presidente, chiesi quale fosse la data. Coincideva con Bruce. Maledissi la coincidenza ma non lui. Gli dissi di sì quasi per deferenza, anche se ero adulto e vaccinato. Chi fosse Iosa lo sapevo benissimo, anche se avrei imparato a conoscerlo sempre meglio dopo, nei decenni. Sapevo che era un democristiano di sinistra impegnato con gli immigrati e dedito all’obiettivo di portare la cultura in periferia, soprattutto nel suo quartiere, Quarto Oggiaro, ingenerosamente chiamato il Bronx di Milano.

E sapevo ancor prima che era una delle quattro persone a cui i brigatisti, nel 1980, avevano sparato alle gambe irrompendo in una sezione del loro partito, rivendicando poi di avere giustiziato “i servi di Cossiga”. Il dibattito iniziò mentre nell’aria indaco giungevano da San Siro gli echi del concerto e di un pubblico in estasi davanti a un “boss” letteralmente favoloso. Non altrettanto favoloso fu il dibattito. Che però era parte importante di un grande percorso umano. Quello di un immigrato pugliese che giunge a Milano nel dopoguerra e le dedica l’anima. Che porta in periferia Camilla Cederna, Giovanni Testori e il cardinal Martini, i sindaci di Milano, uno dopo l’altro, e quello di Palermo, Leoluca Orlando. Che affronta con dignità una ferita che gli starà addosso tutta la vita, più di trentacinque operazioni, e un modo di camminare sempre e purtroppo rivelatore.
Contrariamente a quanto era scritto nel comunicato brigatista, certo fesso più che delirante, Iosa non era un servo del sistema, e tanto meno di Cossiga. Al quale rimproverò anzi a lungo con rabbia mai soffocata di essersi messo a flirtare con gli ex della lotta armata, fino a far da testimone di nozze a uno di loro. E di avere dimenticato, al contrario, chi si portava sul corpo o nella vita le sofferenze degli anni di piombo.

Una accusa di tradimento che spiegò anche perché Iosa, esemplare sempre più raro del cattolicesimo sociale in politica, decidesse di seguire Leoluca Orlando nella fuoriuscita dalla Democrazia Cristiana e nella fondazione della Rete, dove divenne subito il beniamino dei nuovi giovanissimi militanti milanesi. Il percorso successivo di questo combattente moderato e radicale fu del tutto coerente con la prima parte della sua storia, “rara avis” nell’avvicendarsi vero o finto delle “repubbliche”. Il suo circolo anzitutto, il Perini, radicato nel futuro grazie alla sua trasformazione in fondazione. Il lavoro umile e autorevole nel suo quartiere, che egli molto contribuì a cambiare, con la dolorosa sorpresa di vedere, all’inizio di una manifestazione antimafia in una scuola, una decina di giovani in piedi sulla cattedra a ritmare ma-fia, ma-fia. Non si arrese nemmeno a quello. Convegni, mostre con le scuole elementari, ricerche sui quartieri della periferia milanese, e documenti e libri, anche, di rilievo. L’impegno per una sicurezza vera, nutrita di società partecipante, in cui arruolava, come un instancabile regista, tutte le personalità cittadine potenzialmente utili alla causa. E la lotta per la memoria, per le vittime di mafia e terrorismo, il lavoro con la “Casa della Memoria”, la recente mostra sulle stragi, la preoccupazione che quanto era accaduto potesse essere dimenticato o trasformato in materia di scherno. Da bravo cattolico non chiuse la porta alle pratiche di riconciliazione tra vittime e assassini, che ebbero in Milano l’epicentro. Ma non volle farne il modello di lettura della storia, che con le sue eccezioni, doveva restare di bene e di male. E che solo come tale poteva essere insegnata ai giovani. Con l’età crebbe la voglia di consegnare a un giovane la sua staffetta, la sua corsa.

Non so se ci riuscì. Gli ultimi tempi ne chiarirono l’usura del corpo. Sapemmo che era stato ricoverato in una struttura medica nelle valli bergamasche. Raggiunsi in un tramonto di luglio la voce affaticata, conscia di non essere all’altezza, e che a dispetto di questo restò fedele ai suoi compiti: “Fermateli, per carità fermateli. Distruggeranno la democrazia e la memoria, difendetele”, ripeteva con tono affannato e disperato. Il messaggio sulla linea si fece poi più flebile. Ma così resti scritto per tutti: il “servo di Cossiga” prese l’ultima strada invitandoci a difendere lo Stato e la democrazia.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 2.9.19)

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