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Silvio Novembre. Ricordo di un Maresciallo dal cuore grande
Questa volta se ne è andato come un eroe. Se glielo avessero detto mentre era in servizio non ci avrebbe creduto. Auto della Guardia di Finanza a cingere con affetto il portone del Preziosissimo Sangue di corso XXII marzo da cui sarebbe uscito tra due ali di cittadini. Gli allievi dell’Accademia ordinati con solennità sul lato sinistro della chiesa a salutarlo, invitati dal loro generale a considerarlo un esempio “senza se e senza ma”, “splendida” e “luminosa” figura di finanziere, “incarnazione dell’etica” del Corpo. Magistrati e giornalisti. E la Milano che lo ha amato, quella della legalità e della giustizia uguale per tutti: Società Civile, girotondi, Libera, scuola Caponnetto.
Silvio Novembre non ha avuto una carriera generosa di onori. Stare accanto all’ “eroe borghese” Giorgio Ambrosoli, spedito sulla trincea più invisibile e più esposta, quella che lo avrebbe costretto a fronteggiare il più forte grumo di potere degli anni settanta -di qua la finanza di Michele Sindona, di là la politica di Giulio Andreotti- gli aveva fatto scoprire il volto peggiore dell’Italia. Un paese cavalcato senza scrupoli e problemi da bande di mestatori e truffatori, traditori e cospiratori, codardi e mercenari. Anche in toga. Anche in divisa. Anche la “sua” divisa. In quel paese l’onestà era un vizio capitale. E il maresciallo Novembre si era schierato appunto con il vizio. Assistendo con tenacia l’avvocato Ambrosoli, nominato liquidatore dalla Banca d’Italia per difendere i risparmiatori della Banca privata italiana truffati da Sindona. L’avvocato non era protetto, però. E forse non avrebbe nemmeno voluto esserlo. Novembre si prese cura della sua incolumità, metà scorta metà segugio investigativo. Rendendosi progressivamente conto del rischio a cui il suo assistito andava incontro. I segni obliqui, le telefonate minacciose, le telefonate silenziose: tutto prendeva consistenza nell’indifferenza altrui senza sfuggire a lui, investigatore di intuito e di esperienza. Fino al killer spuntato d’improvviso sotto casa dell’avvocato a mezzanotte, dopo una sera di spensieratezza, 11 luglio 1979.
Conobbi Silvio Novembre chiedendogli di essere tra i fondatori del circolo “Società Civile”. Parlammo più volte. Mi voleva bene soprattutto per il mio cognome. Poi anche, credo, per essere professore di sua figlia Isabella alla Bocconi. Non parlava mai volentieri del marcio che aveva visto tra le sue stesse file attraversando quella vicenda. Le complicità, le paure e gli accomodamenti che -quando meno se l’aspettava- indossavano la divisa da generali. O il suo sentirsi corpo estraneo mentre difendeva gli interessi dello Stato.
Serbò, per l’avvocato, un affetto e una riconoscenza come solo i grandi uomini sanno averne per i propri superiori. Li riversò sulla moglie di lui, Annalori, e sui suoi figli, piccolo gruppo straziante nei funerali della solitudine, dove nessun ministro sentì il dovere di presentarsi. Ho di lui un ricordo vivo e malinconico. Risale al 2013. Umberto, il piccolo bimbo costretto quasi a trotterellare dietro la bara del padre, era ormai diventato avvocato famoso, leader civile. Ed era stato candidato dal centrosinistra alla presidenza della Regione Lombardia, costretta a sciogliersi e ad andare a elezioni anticipate per questioni di mafia. Ambrosoli era sembrato il candidato perfetto da contrapporre agli eredi del celeste Formigoni, sempre più impigliato in scandali e casi giudiziari. Ci credette lo schieramento progressista, convinto di avere in mano la carta ideale da giocare, un nome prestigioso e cristallino.
Ci credette anche lui. Non per desiderio politico, ma proprio pensando al suo avvocato. Ucciso dalla mafia a Milano, suo figlio sembrava destinato a governare in nome dell’onestà la Lombardia. Una meravigliosa nemesi storica. Non andò così, come sappiamo. Quando al teatro Litta in corso Magenta la Milano del centrosinistra si diede convegno per seguire i risultati e fu chiara la sconfitta, certo più contenuta rispetto ai turni precedenti, uscii per strada. Fuori, solo, appoggiato a un piccolo pilastro, con un bastone in mano, stava Silvio Novembre. Aveva l’occhio perso, che guardava altrove. Il “suo” bambino, il figlio del “suo” avvocato, non sarebbe diventato presidente. Nessuna nemesi, nessuna giustizia della storia. Anche per questo quando ieri ho visto rendergli gli onori che si rendono agli eroi al suono del “Silenzio” ho pensato che un poco di giustizia, infine, la storia l’ha pur fatta. Anche se in ritardo, come sempre.
(scritto su Il Fatto Quotidiano del 30.9.19)
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