Storia di Monica, la ragazza con la valigia. Racconto dall’Olanda

Se ne era andata una prima volta via da Milano dopo essersi presa la laurea triennale in Sociologia della criminalità organizzata. Una tesi strana, che ancora mi chiedo come potesse essere spuntata nella mente di una ragazza ventunenne. Né mafia e politica, né ruolo della donna, né beni confiscati, e nemmeno impresa mafiosa. Ma “Strategie di contrasto alle organizzazioni mafiose sul piano internazionale. Il ruolo di Europol”. L’aveva fatta benissimo, una ricerca sul campo che l’aveva portata a girare, intervistare e leggere documenti. E che le era valsa la lode.

Era il dicembre del ’14. La persi di vista con il dispiacere che ogni professore prova quando uno dei migliori, specie se giovanissimo, spicca il volo. Chissà dove andrà, chissà che farà. Semplice. Se ne andò ad Amsterdam, la città che fa sognare i giovani di essere più liberi. Fece un master in Studi sulla sicurezza. Terrorismo, criminalità organizzata, cybercrime, ma anche comunicazione istituzionale. Qualche mese in Inghilterra “alla pari”, e poi due stage successivi in due grandi organizzazioni internazionali. Tra noi solo un sms ogni tanto, in occasioni particolari. Poi, nel ’17, la proposta del rientro: “La farebbe una ricerca sulla ‘ndrangheta a Brescello? Non sarà semplice. Non è infiltrazione, ma controllo sociale vero e proprio”. Monica rispose di sì. Con le cautele e le timidezze di chi ha superato da poco i 25. “Sarà aiutata, non solo da me”. Vinse il timore delle situazioni imprevedibili. La prima volta che giunse in paese fu avvistata subito dai guardiani dei portici, e seguita con moto. Non si perse d’animo, anche se le si leggevano le esitazioni in faccia. Maturò rapidamente, allestì un progetto perfetto. Andò avanti fino a un certo punto, poi l’annuncio previsto: “ho vinto un bando all’estero”. Partì di nuovo. Destinazione, una nuova grande organizzazione internazionale.

In Olanda, dove inizia a serpeggiare e radicarsi la mafia marocchina, in lotta cruenta con quella caraibica. E in cui la ‘ndrangheta, grazie all’eterna rimozione, muove oggi passi da gigante. Mi racconta di avere collaborato con “31 mag”, un giornale telematico che prende nome dal prefisso dell’Olanda, e che si è caratterizzato per avere ospitato nella sua sede, da poco demolita per farci un parcheggio, più di quaranta sans papier, e il cui direttore, Massimiliano Sfregola, ha subito perciò le minacce grevi dei soliti haters bercianti. E’ sempre lucida nell’analisi di quanto accade. La passione del giornalismo, peraltro, non l’ha mai lasciata. Riuscì a ottenere il tesserino scrivendo per il “Gazzettino metropolitano” di Sesto San Giovanni, “la mia palestra giornalistica, anche se faceva parte di un progetto di Caltagirone”, e ora questo titolo proprio non lo vuole perdere. “E se poi mi serve ancora devo ricominciare tutto daccapo? Non ci penso nemmeno. Così ogni tanto mia madre mi chiama dall’Italia e mi dice che c’è da pagare la bolletta dell’Ordine”.

La scruto, incontrandola per lavoro dopo quasi due anni in una capitale europea. Evoca immagini cinematografiche. La memoria, si sa, procede per sbalzi e schizzi. La rivedo ragazzina uscita dal liceo linguistico di Sesto appollaiata con un gruppo di coetanei sui gradini di Scienze politiche. O tra decine di compagni piena di stupore sulla nave della legalità che porta studenti di tutt’Italia a Palermo per il 23 di maggio. O quando fonda (“sì, sono stata tra fondatori” ricorda con pudore, come a non prendersi meriti abusivi) il grande presidio universitario di Libera. O quando si aggira per Casal di Principe durante un’edizione dell’università itinerante. O scopre una vocazione precoce all’analisi strategica degli scenari del crimine. E’ incredibile come pochi anni di distanza riconsegnino ai miei occhi una giovane donna elegante nel suo cappotto rosso e sobriamente truccata, stimata nella propria grande e prestigiosa organizzazione di pubblica utilità, di cui peraltro mi vieta severamente di fare il nome. Mi parla delle sue letture, Valerio Massimo Manfredi, Isabel Allende e naturalmente la criminalità organizzata. “Se tornerei in Italia? Per fare un altro stage a 30 anni? Se mi piacesse e mi desse da mangiare sì. Perché vede, è una questione di dignità. Non posso più chiedere i soldi a mia mamma”. Semplice, diretta. Riconsegnandomi così il dramma di un paese chiacchierone e irresponsabile che allontana la metà dei figli migliori. “Che sogno ho? La consapevolezza che il mio lavoro contribuisca a qualcosa di utile per la società”. E mi sento felice che non sia cambiata.

(scritto su Il fatto Quotidiano del 7.10.19)

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