Marcela Turati. La sfida (sanguinosa) dei giornalisti messicani

I capelli, serpentelli castani, li allunga sempre all’indietro. E anche gli occhi curiosi non si fermano mai. Dolenti pure quando ridono. Mai visto nessuno così, scoppi improvvisi di allegria e il dolore inchiodato nello sguardo.
Marcela Turati è venuta in Italia a portare nelle università la vita sua e dei suoi colleghi giornalisti tra lampi di orgoglio e groppi in gola. Voleva raccontare, dice, la denutrizione dei bimbi messicani, le disuguaglianze, il bisogno di riforme sociali. Erano i primi anni novanta. Ma bastò la boa dei Duemila per scoprire che molti come lei si erano ritrovati a fare i corrispondenti di guerra. Senza partire, senza essere andati da nessuna parte. Restando nel loro paese, e senza che fosse dichiarata alcuna guerra. Semplicemente, a un certo punto la morte violenta e la sparizione diventarono la vera cifra di una terra ancora capace di divertirsi, di tifare calcio e di allevare moltitudini di bambini. Con ottimi musei e splendori antichi. Immersi nel sangue.

Marcela ha origini italiane: lombarde, precisa ai giovani che la fissano increduli e affascinati. Il bisavolo ebbe a che fare con l’ospitalità di cui godette Trotzky a Città del Messico quando tutto il mondo lo respinse. Poi si fa prendere dall’emozione. Recita il rosario dei colleghi uccisi, gli amici che più aveva cari. Due volte l’ho sentita, e in tutt’e due ho avvertito la fatica immane di pronunciare quei nomi senza scoppiare in pianto. Pochi cenni per ognuno, pitture amorevoli e leggere. Armando Rodriguez, ucciso a Ciudad Juarez; Javier Valdés, “il maestro di noi tutti”, ucciso a Sinaloa; il fotografo Ruben Espinosa, che scappò a Vera Cruz, ma inutilmente, perché anche lì lo raggiunsero… Li nomina di corsa, difficile starle dietro sul taccuino. E’ un rimpianto senza colpa, quasi polvere d’anima. Sta costruendo la rete dei “periodistas da piè”, come vengono chiamati i giornalisti di inchiesta, quelli che non si incollano ai tavoli e ai video, ma vanno a vedere, cercano, camminano, chiedono. Ti fa immaginare che siano in tanti. Ma appena scavi capisci che i “tanti” sono tenera utopia. Piccoli gruppi, piuttosto, che operano in quindici stati su trentadue, quelli dove la stampa ha ancora cittadinanza. Quanti per gruppo? Non si sa. Un po’ si trovano di persona, spiega, ma poi ci sono le chat. E tuttavia, precisa, sono voci “solitas”, che esprimono comunità “chiquitas”. Si perde, Marcela, sui visi degli studenti. E intuisci che a volte vorrebbe averne altrettanti davanti a sé nel suo paese. Ci hanno costretto a diventare altra cosa dai giornalisti, confessa, annuendo con qualche malinconia alla domanda se siano, insieme, “periodistas” e “activistas”.

D’altronde alcune inchieste le devono fare nel tempo libero, le direzioni di testata non amano che si infilino troppo nelle vicende dei narcos, o della corruzione che si fa sistema. Anche la conta febbrile dei morti, anche le riprese mozzafiato di chi va a cercarsi i suoi cari armato di zappa e unghie, sono scelte personali. Di gente che in gruppo ha bisogno di incontri emotivi, “psicologici”. Lo stesso presidente dell’ultima rivoluzione, Lopez Obrador, non sembra considerare molto il valore sociale della libera informazione. A settimane alterne, spiega Marcela, ci sentiamo dire che la stampa è contro la patria e contro lo Stato, perfino “contra el pueblo”, che la “prensa” è una prostituta, che stampa e verità sono due cose opposte. “Ma ci si rende conto del messaggio che si dà a chi ci vuole uccidere? E in effetti il governo spende per la protezione dei giornalisti, nonostante le centinaia tra uccisi, sequestrati e torturati o minacciati fisicamente, meno di quanto dedichi al sostegno del base-ball”. Lo dice e lo ripete, e un fremito fa sussultar la gola.

Le chiedono che cosa spera per il Messico dei prossimi cinque-sei anni. Lei risponde una cosa sola. Non benessere, né libertà, né pace. Ma l’istituzione internazionale di “una commissione contro l’impunità, per la verità”, la stessa che oggi pare un totem proibito, e a cui ha dedicato il suo libro sulle vittime, “Las cenizas” (“Le ceneri”). Se ha paura? Glielo domandano con rispetto, non così brutalmente. Spiega che abita a Città del Messico, ma che i suoi vivono nel Nord. E per questo, di alcune zone, preferisce non scrivere. Per non condannare a morte i suoi genitori. Quale libro vorrebbe scrivere? Uno sul massacro dei migranti, risponde. E ora capirete il mistero degli occhi che ridono dolenti.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 14.12.19)

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