Piccole storie sotto l’albero. A voi i regali più grandi

Proprio vero. L’età trasforma il senso del Natale. Per questo, a un certo stadio della vita, i veri regali giungono dalle pieghe delle piccole storie che incontri. E siccome ho la fortuna di incrociarne molte, vorrei donarne al lettore tre. Partirò a sorpresa da un politico locale, Rosario, consigliere comunale milanese, e dalla lettera che ha inviato a me e ad altri in questi giorni. All’inizio sembra un garbato componimento sul mistero del Natale. Ma qualcosa brilla di una luce particolare. “Guardiamo fuori dalla finestra e, alle nostre latitudini, ricorrendo ai ricordi, ci aspetteremmo di osservare lo scendere della neve”, dice. “Invece, niente…La neve non dà segni della sua presenza…Allora pensiamo che qualcosa è cambiato. Certamente il clima. Ma, probabilmente, non solo quello. […] Vorremmo incontrare parole e gesti di verità e libertà e non li troviamo. […] Però, nonostante tutto, non ci arrendiamo e guardiamo ancora verso il cielo sperando che la neve ritorni, come al tempo dell’infanzia. Ma la neve non scenderà, se ne è andata, stanca di raccontarci storie che non comprendiamo, che non sappiamo condividere. Rimarranno i ricordi a farci compagnia insieme alla memoria di una stella che è ancora presente nel cielo ma, ormai, la vedono e la seguono davvero in pochi. Come una chimera, come un’ultima speranza…”.
Prosa delicata. Con dentro quel fulmine di poesia che mi ha riacciuffato il cuore più volte: “Ma la neve non scenderà, se ne è andata, stanca di raccontarci storie che non comprendiamo”. La neve che ripudia l’umanità e rifiuta di scendere, perché non capiamo le storie che ci porta, mi sembra la questione più radicale che si possa porre alla nostra sensibilità e intelligenza. Né assemblea di militanti, né consesso di studiosi, né raduno profetico l’ha mai fatto. C’è voluta una lettera circolare arrivata senza rumore.

Un altro dono in forma di lettera, questa destinata espressamente a me, mi è giunto invece da un giornalista catanese. Riccardo è il suo nome. “Caro Nando, fra qualche giorno faccio settant’anni (in lettere, non solo per il buon italiano ma anche per sottolinearne la solennità e drasticità) e mi sembra una cosa ovviamente buffa, però proprio vera. Avevo appena superato il trauma di non essere più un ragazzo, ed ecco che tutto d’un colpo sono un vecchio. Debbo dire che fra i trenta e i settant’anni, i settanta sono la svolta più piacevole: sono cresciuto parecchio (cioè, sono regredito) in tutti questi anni e ora la prima cosa che mi viene in mente difronte al calendario è che il bambino di Luca ora ha quasi quattro anni, e Marta di Matteo ha appena fatto due mesi, e forse camperò abbastanza da assistere (nella mia testa) al loro matrimonio, nel qual caso dovrò assolutamente comprarmi una cravatta nuova [conoscendo il mittente, Luca e Matteo devono essere due giovanissimi giornalisti]. Sarò certamente il testimone di uno o una dei due (ma quale?), e il flash continua, con assoluta pace e serenità e un sorrisetto furbo e sicuro. Ok, sarà anche il sintomo di qualche rimbambimento senile, ma che me ne frega? Va tutto bene così. E questo è tutto. Perché ti scrivo? Mah, un capriccio improvviso. Poi, ragionando, mi sono accorto che in realtà avevo bisogno di parlare di questa allegria con qualcuno della mia età, del mio mondo. Non siamo rimasti in tanti, ma è sufficiente. Hai presente un dinosauro alla fine del Cretaceo? Ecco, quello sono io. Ma non una bestiaccia grossa e pesante (come ci calunniano nei film): un animale un po’ lento, magari non più agilissimo, però sempre svelto e curioso, che non se ne fa scappare una”. Tra miti giovanilistici e perversioni estetiche, questo minuscolo “De senectute” fa dono grande di saggezza.

Il terzo dono me lo fa una mia giovane ricercatrice. Federica è il suo nome, ed è di terra mantovana. Priva di compulsioni accademiche, mi comunica felice in treno che un saggio da lei scritto con altri su una delle più prestigiose riviste al mondo ha avuto il premio come migliore articolo pubblicato nel 2019. Scesa dal treno, mi affianca dopo un’ora nella difesa appassionata del nostro libro sulla ‘ndrangheta a Reggio Emilia. Davanti alla folla di Brescello, primo comune sciolto per mafia in Emilia. Serata accesa, ma non si è tirata indietro. La sento, la vedo, e capisco che si può ancora essere sociologi di battaglia e di accademia. E questo per me, che di sociologia ho vissuto, che i primi grandi volumi di sociologia li trovavo sotto l’albero, e che le compulsioni accademiche pavento, è il dono più bello. Buon Natale.

(scritto su Il Fatto Quotidiano del 23.12.19)

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